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“Io che avevo ormai perduto / tutte quante le speranze / non credevo nei miei occhi / quando sei venuta tu / hai saputo dar la mano a chi / non credeva più a nessuno / tutto hai dato senza chiedere / per un uomo come me” (Vita mia, Tony Del Monaco).

Tony Del Monaco, oggi dimenticato, è stato, con la sua voce dal timbro molto potente, un notevole cantante nei Sessanta. Vita mia, che presentò nello spettacolo televisivo ‘Campioni a Campione’, lo consacrò al grande successo. Ma non intendo qui fare una biografia di Del Monaco, semplicemente estrapolare da questa canzone un breve verso,  quando dice: tu hai dato tutto “per un uomo come me” cioè lui si sente una nullità, inferiore a lei. Nelle canzoni al femminile, parlando ovviamente in linea generale, un atteggiamento del genere non c’è, lei si dispera per un amore finito, diventa una furia per un tradimento, ha nostalgia di un uomo del suo passato che l’ha lasciata e pensa che lasciandola ha perso l’occasione della sua vita. Non si sente affatto di “essere da meno”, per dirla con Jannacci.

La verità è che, non solo nelle canzoni ma nella vita reale, l’uomo si sente inferiore alla donna anche se non è disposto ad ammetterlo a nessun costo. Lo scrittore D. H. Lawrence, finissimo conoscitore dei rapporti fra i sessi (Donne innamorate, L’arcobaleno, Figli e amanti oltre al celeberrimo L’amante di Lady Chatterley) lo dice nel modo più esemplare e chiaro: “Quasi tutti gli uomini, nel momento stesso in cui impongono i loro egoistici diritti di maschi padroni, tacitamente accettano il fatto della superiorità della donna come apportatrice di vita. Tacitamente credono nel culto di ciò che è femminile. E per quanto possano reagire contro questa credenza, detestando le loro donne, ricorrendo alle prostitute, all’alcol e a qualsiasi altra cosa, in ribellione contro questo grande dogma ignominioso della sacra superiorità della donna, pure non fanno ancor sempre che profanare il dio della loro vera fede. Profanando la donna essi continuano, per quanto negativamente, a concederle il loro culto.” (La verga d’Aronne).

Nella grande storia antropologica del genere umano la protagonista è la femmina, perché è lei che dà la vita, il maschio è solo un fuco transeunte (l’invidia del pene è una sciocchezza freudiana). Nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, l’Essere primigenio è androgino. Con la Caduta si scinde in due: la donna, che viene definita “la vita” o “la vivente”, e l’uomo che è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”. Ciò che in definitiva, e nonostante tutto, spinge l’uomo verso la donna è la nostalgia della vita. Nel linguaggio degli innamorati lui le dice “tu sei la mia vita” (come nella canzone di Del Monaco), lei invece lo chiama amore, tesoro, gioia, cucciolo e con ogni altra sorta di vezzeggiativi, ma quasi mai gli dice “Tu sei la mia vita”. Perché la vita è lei.

Ad aggravare la situazione c’è che, per ragioni antropologiche poi divenute culturali, è l’uomo ad essere dalla parte della domanda. Per quanto facciano i bulli i maschi non sono sempre pronti al rapporto sessuale. Nemmeno lei lo è, ovviamente. Ma la défaillances di lui è decisiva. Per questo l’uomo può fare la sua ‘avance’ solo quando si sente veramente pronto, ponendosi così,  per la gioia di quelle del MeToo, nella posizione debole della domanda.

La reazione a questo inconfessato ‘inferiority  complex’ è la violenza. Esemplare, in questo senso, è lo stupro. Con la facilità, almeno apparente, che c’è oggi nei rapporti fra uomini e donne non c’è alcun bisogno di ricorrere allo stupro per soddisfare il proprio bisogno sessuale. La ragione dello stupro non è sessuale, è psicologica: si vuole umiliare, dominare, distruggere l’odiato nemico di sempre (“L’amore? L’eterno odio tra i sessi.” scrive Nietzsche).

Sulla parità dei diritti tra uomo e donna non si discute. Ma a me pare che oggi, raggiunta bene o male questa parità, la donna approfitti un po’ troppo di questa sua posizione di forza mascherata da fragilità “Lacrime (femminili) Irresistibili. Disarmanti. Eterno e impareggiabile strumento di seduzione, d’inganno e di ricatto che la donna utilizza a piene mani, se si può dir così, sfruttando la propria emotività che con fragilità fa solo rima. Insincere anche quando sono autentiche. Bisognerebbe estrarre la pistola al primo singhiozzo. Invece ci si arrende senza condizioni.” (Di[zion]ario erotico, 2000).

Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2021

"L'amore? Un disturbo psicosomatico inventato dalla Natura per avvicinare due sessi altrimenti incompatibili" (m.f.)

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Enrico Letta, segretario del Pd, ha proposto, alcuni giorni fa, di alzare al 20% la tassa di successione per i redditi che superino i cinque milioni di euro, e solo sull’eccedenza. Il ricavato, secondo Letta, sarebbe sufficiente per dare una “dote” di 10.000 euro alla metà dei 560.000 ragazzi che ogni anno compiono i fatidici 18.

Finalmente un segretario del Pd ha detto qualcosa “di sinistra”. Si sono opposti quasi tutti, a cominciare da una buona metà del suo partito argomentando che non è il caso di proporre nuove tasse in periodo elettorale. A parte che l’Italia è sempre, per una ragione o per l’altra, in periodo elettorale o preelettorale, l’argomentazione è risibile perché è una tassa che colpirebbe solo l’1% della popolazione e soggetti che certamente non votano Pd. Per le destre, Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, ogni tentativo, sia pur minimo, di una ridistribuzione sociale della ricchezza, si tratti di tassa sull’eredità o di patrimoniale, è come l’apparizione stessa di Belzebù, come un “esproprio proletario” dei tempi di Lotta Continua. In quanto al premier, Mario Draghi, ha affermato che un provvedimento del genere va inserito nel più generale riordino del sistema fiscale italiano che è la classica “fuga in avanti” per annullare qualsiasi iniziativa poco gradita tante volte usata dai nostri politici di professione. Del resto da un banchiere di professione non ci si può certo attendere un occhio di attenzione per le classi più disagiate come del resto mi pare venga fuori dal intricatissimo piano di riforme presentato nei giorni scorsi all’Ue in cui è pressoché certo che, a parte la sacrosanta abolizione della incomprensibile norma che concede l’appalto all’azienda che fa il massimo ribasso e non a quella che offre le garanzie migliori, sarà dato il via libera a tutti i famelici e assatanati fautori di “mega opere” compreso l’inutilissimo e ambientalmente devastante Ponte di Messina.

In tutti i principali Paesi occidentali la tassa di successione è molto più alta che in Italia (dove l’aliquota è attualmente al 4%): in Francia varia tra il 5 e il 60%, in Germania la massima è del 30%, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna del 40.

Del resto la tassa di successione è perfettamente coerente col pensiero liberista che vuole un’uguaglianza, almeno teorica, sulla linea di partenza (mentre su quella d’arrivo vince il più bravo, ma anche qui non senza dei limiti perché sia Adam Smith che David Ricardo sono contrari al monopolio e agli oligopoli perché violano un altro dei cardini della dottrina liberista, quello della libera concorrenza). Sul versante opposto di questa posizione liberista c’è l’umanissimo desiderio di lasciare i frutti del lavoro di una vita ai propri figli. Ma questo riguarda le persone normali, le eredità, diciamo così, normali, non certamente quelle enormi che al contrario pongono dei problemi ai discendenti. Perché se ci si ritrova ad avere, senza alcun merito personale, una montagna di soldi, poi non si sa più che cosa fare della propria vita. I suicidi di Edoardo Agnelli e di Christina Onassis dovrebbero aver insegnato qualcosa.

Ma la proposta di Letta, che certamente non risolverà la questione, è importante perché segnala un fenomeno in atto da almeno cinquant’anni in Occidente: i ricchi diventano sempre più ricchi, e anche un pochino più numerosi, mentre i poveri diventano sempre più poveri e molto più numerosi finendo così per assottigliare il ceto medio che è il collante necessario di ogni società perché rende meno evidente il divario fra le classi sociali. E questa divaricazione non ha fatto altro che aumentare. Ne La Ragione aveva Torto? (1985), che fotografa la situazione dell’Italia degli anni ‘80, scrivevo: “Il decile più ricco, cioè il 10% che sta alla sommità della piramide sociale, ha il 29,9% del reddito complessivo rispetto al 2,4% del decile più povero, i ricchi cioè hanno un reddito che è 12,5 volte quello dei più poveri”. Ma il dato più sconcertante lo si ha se si mettono a raffronto le ricchezze invece dei redditi. Nell’Italia degli anni Ottanta il 6,7% delle famiglie deteneva il 42% della ricchezza totale e il 15,8% si spartiva il restante 66%. Per contro il 47,8%, cioè quasi la metà della popolazione, aveva lo 0,8%. Da allora la situazione in Italia, ma il problema è mondiale, non ha fatto che peggiorare. Secondo un rapporto della Banca d’Italia del 2018 “Nel decennio tra il 2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati, rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200”. Ma oggi assistiamo, ammirati ma anche spaventati, all’accumularsi di ricchezze (Bezos, Musk, Zuckerberg) che non erano pensabili non dico in era preindustriale, ma fino a una decina di anni fa. Oggi il normale cittadino, lo “schiavo salariato” come lo chiama Nietzsche, è più lontano da Bezos, come ricchezza ma anche come status sociale, di quanto lo fosse il contadino della società preindustriale rispetto al più ricco dei feudatari o forse allo stesso re. Bisogna allora ammettere un fatto piuttosto imbarazzante: lo sviluppo economico, industriale ma oggi soprattutto finanziario, aumenta a dismisura le diseguaglianze. È un processo che si autoalimenta e sembra ormai del tutto fuori controllo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2021

 

"Oggi chi lavora non può diventare ricco: perde troppo tempo a lavorare." (Il Ribelle dalla A alla Z)

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Chiedo scusa ai lettori del Fatto ma sono costretto a ritornare sul calcio. È anche un fatto personale. Sabato sera si giocava la finale di Champions League fra Manchester City e Chelsea. Favoritissimo era il City, perché ha un migliore impianto di squadra, e forse, soprattutto, perché vi gioca quello che è attualmente ritenuto il più forte centrocampista del mondo, Kevin De Bruyne, in odor di “pallone d’oro”.  Invece ha vinto il Chelsea, 1-0, con pieno merito, e il risultato avrebbe potuto essere anche più rotondo se Timo Werner non avesse sbagliato tre gol già fatti.

Ha vinto il Chelsea, ma la partita l’ha persa Guardiola, l’allenatore del City. Volendo fare il fenomeno, dimostrare che le partite le vince lui non i giocatori, ha cambiato l’impianto di una squadra che fin lì era andata benissimo e i ruoli di alcuni giocatori determinanti.

La partita era iniziata da cinque minuti che ho detto a mio figlio Matteo: “qui c’è qualcosa che non va”. De Bruyne, da cui passa in genere tutto il gioco del City, non aveva ancora toccato un pallone. È sull’asse De Bruyne-Gundogan che in genere si sviluppa tutto il gioco del City. Cosa si era inventato il genio Guardiola? Aveva messo De Bruyne “falso nueve” togliendogli trenta metri di campo e Gundogan davanti alla difesa, cioè sessanta metri più dietro. I collegamenti fra il belga e Gundogan erano saltati e tutta la squadra ne aveva risentito. Il City non faceva il suo gioco, più semplicemente non faceva gioco. Intanto i due commentatori di Sky, Marianella e Marchegiani, parevano non essersi accorti di nulla e, invece di raccontare la partita, continuavano a parlare dei record di questo o di quello, come è ormai inveterata abitudine dei commentatori.

Si pensava che, approfittando dell’intervallo, Guardiola avrebbe corretto il tiro, capendo il suo peccato di presunzione. Oltretutto Gundogan, messo in un ruolo di “frangiflutti” che non è il suo, aveva rimediato un fallo da ammonizione, niente di più facile che potesse commetterne un altro ed essere espulso, mentre se sei un centrocampista sono gli altri a fare fallo su di te. Invece Guardiola si è corretto solo a metà: ha riportato De Bruyne nel suo ruolo, ma ha lasciato Gundogan là dietro. Così Kanté ha continuato a fare il bello e il cattivo tempo a centrocampo.

De Bruyne aveva giocato insolitamente male nel primo tempo. Certamente perché era fuori ruolo, ma anche, credo, perché pesava su di lui il fantasma del pallone d’oro: aveva giocato straordinariamente bene per tutto l’anno e quale migliore occasione di una finale di Champions per dare un suggello definitivo a questa candidatura? Comunque il ragazzo doveva essere parecchio frastornato, un giocatore della sua esperienza sa come evitare uno scontro frontale, per di più testa contro testa, contro un avversario (Rudiger in questo caso). È stata un’immagine abbastanza terrificante vedere De Bruyne, lacrime agli occhi, che traballava, che non si reggeva in piedi, sull’orlo del collasso, sorretto dagli accompagnatori, venire portato di forza negli spogliatoi.

Il tedesco Tuchel, allenatore del Chelsea, 47 anni, non è alle prime armi ma non ha alle spalle un grande palmares. Per vincere gli è bastato fare in modo semplice le cose più semplici. A differenza di Guardiola o di Mourinho non se la dà da superuomo. È anzi di una singolare modestia, cosa rara, a certi livelli, nel calcio e nella vita. Ha riconosciuto che il bel Chelsea che si è trovato fra le mani è opera anche del suo predecessore, Lampard (che con Gerrard ha formato una leggendaria coppia di centrocampisti).

Cosa ci insegna questa favoletta? Che nel calcio, come nella vita, nella politica, nella società, di cui il calcio è un osservatorio privilegiato, non è sempre la boria a essere premiata e che la vera intelligenza sta nell’avere coscienza dei propri limiti.

Di tutt’altra tendenza è Guardiola. Ottimo giocatore, come allenatore si attribuisce e gli viene attribuita una caratura sproporzionata ai suoi meriti. In fondo in carriera ha vinto due Champions. Col Barcellona. Ora quel Barcellona, con Xavi, Iniesta e Messi, lo potevo allenare anch’io. Ed è anche leggenda che si sia inventato il tiki-taka. Il tiki-taka in quel Barcellona senza un centravanti di ruolo era una necessità.

Infine due parole sulla sfiga. La mia. Ai book avevo puntato il Bayern e, in subordine, il City come vincitrici della Champions. La quota, anche se non particolarmente alta, era comunque ottima perché per vincere una Champions bisogna superare una serie di trappole. Ma il Bayern ha dovuto affrontare i due incontri più impegnativi, quelli con il PSG, senza Lewandowski, fondamentale non solo perché segna gol a carrettate (520) ma perché apre il gioco ai compagni e serve puntualmente quello meglio piazzato.

Beh, mi sono detto, il Bayern è fuori, ma resta il City che è di gran lunga la migliore delle squadre rimaste in gara. Mi sentivo sicuro della vittoria e dei quattrini. Invece a metterci lo zampino è arrivato il mitomane Guardiola.

Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2021

 

ERRATA CORRIGE

Carissimi,

sono lusingato per la citazione sul Vs giornale - per di piú da parte di una penna prestigiosa come Massimo Fini - ma il telecronista della finale di Champions League tra il Manchester City e il Chelsea non era il sottoscritto, bensí l’ottimo, collega e amico, Massimo Marianella. 

Cordialmente, Max Nebuloni 

 PS Sulla “caratura sproporzionata” ai meriti di Guardiola sono perfettamente d’accordo, ma dite a Fini che Guardiola ha vinto la Champions League per due volte: nel 2009 e nel 2011, entrambe contro il Manchester United.

 

Gentile Nebuloni, sono perfettamente d'accordo su tutt'e due le correzioni. Sulla prima, lo sbaglio del nome, c'è poco da discutere, e me ne scuso con lei e con i lettori. Anche la seconda è esatta, Guardiola non ha vinto una Champions ma due, sempre col Barcellona. Qui il fatto è che vado a memoria e non uso compulsivamente internet. Ma internet, benché io lo detesti, serve. Però... però una mia giovane amica, Vittoria, 22 anni, laureanda in filosofia, mi ha detto: "Internet è uno strumento ambiguo. A furia di consultarlo mi sono accorta che ho perso la memoria perché mi sono abituata a non usarla". Io la mia personale memoria preferisco mantenerla, a costo di fare qualche inevitabile errore.
Mi auguro di risentirla, come telecronista ovviamente, magari nella finale degli Europei con l'Italia di Mancini in campo.
 
Un cordiale saluto. Massimo Fini
 
Lettera al Fatto Quotidiano, 4 aprile 2021