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Su Repubblica il capo del Politico Stefano Cappellini consiglia a Elly Schlein di aderire al principio di realtà “senza cedimenti alle seduzioni della decrescita”. A parte che non credo che Schlein abbia bisogno di pelosi consigli perché sembra una che va diritta per la sua strada, come del resto Giorgia Meloni che a me piace come persona, perché è fresca, diretta e cocciuta, anche se non condivido quasi nulla del suo pensiero (non si può essere europeisti e nello stesso tempo atlantisti cioè senza condannarsi a un perenne servaggio americano) la decrescita, che non sarà “felice” come ipotizza Maurizio Pallante un pensatore troppo spesso messo ai margini, ma sanguinosa . Però è il solo modo di salvarci.

La crescita ha creato sconquassi inauditi in campo sociale, economico e militare. È stato Alexis de Tocqueville il primo a notare, con un certo sbalordimento, nel suo saggio “Sulla povertà”, scritto nel 1830, che nell’Inghilterra del suo tempo, il Paese più opulento d’Europa, nel pieno del suo sforzo industriale, cioè della sua crescita, i poveri erano sei volte di più che in Spagna e Portogallo che erano appena all’inizio di quel processo, mentre nei Paesi non ancora toccati dall’industrializzazione, quindi dalla crescita, la povertà non esisteva.

È un dato sotto gli occhi di tutti che la crescita è causa della divaricazione sempre crescente, a volte spinta fino allo sbalorditivo (Elon Musk, Bezos), fra ceti ricchi e sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. E questo vale anche a livello internazionale con il divario crescente fra Paesi ipocritamente detti “in via di sviluppo” e quelli già sviluppati (il disastro africano evocato anche da Papa Bergoglio in una sua omelia). Viene quindi pian piano erosa la classe media che fa da collante fra queste due realtà, nazionali e internazionali, così lontane e questo, oltre che indecente, è pericoloso perché può portare, con buona pace di Cappellini (ma chi era costui?) e di tutti i Cappellini, a uno scontro sociale violento. Il vecchio Marx pensava che alla lunga i ricchi sarebbero diventati così pochi che per cacciarli non ci sarebbe stato bisogno di una rivoluzione, ma sarebbe bastata una pedata nel culo. Si sbagliava. Perché oggi i ricchi oltre che piuttosto numerosi hanno in mano tutte le leve del potere, e in particolare quello finanziario, per schiacciare nel sangue la classe media, i poveri e i miserabili. Ma se l’attuale successo della crescita continuerà verrà un giorno, non poi tanto troppo lontano visto la velocità esponenziale cui sta andando questo processo, in cui saranno quel che resta della classe media, i poveri sempre più poveri, i miserabili a innocuizzare i ricchi e i potenti in un bagno di sangue. Sarà il “dies irae”, il giorno del redde rationem.

È stata la crescita tecnologica a portare gli strumenti bellici dalla spada, cioè dal virile corpo a corpo, alle attuali armi a distanza che non solo distruggono l’epica della guerra ma anche la sua etica (Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta) ma soprattutto si prefigurano come l’autodistruzione dell’intero genere umano  (“il progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia ad essere una minaccia per il genere umano”, Ratzinger). Più che una minaccia è ormai quasi una realtà se i potenti della Terra arriveranno all’uso della Bomba travolgendo tutti noi, miserabili cittadini del tutto ininfluenti (Don’t look up, Adam Mckay), ma pure, per fortuna, anche se stessi.

È l’antica questione che contrappone le società statiche, quali erano sostanzialmente quelle preindustriali, contadine e artigiane, e quelle dinamiche che sono destinate, per definizione, per la loro criminale coerenza interna, all’autodistruzione. Questo, perlomeno, è il mio personale wishful thinking. Bye bye.       

Il Fatto Quotidiano (3 marzo 2023)

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Si è costituito a New York un gruppo di ragazzi giovanissimi, più o meno adolescenti, 17 anni o poco più. Che cosa vogliono? Lo si ricava dal nome che si sono dati Luddite Club. Si ispirano, con modalità e intenti però diversi, al luddismo classico, il movimento operaio nato in Inghilterra ai primi dell’Ottocento, cioè pochi decenni dopo il take off industriale che già proiettava la sua sinistra ombra sul mondo del lavoro e non solo. I luddisti sabotavano i nuovi macchinari e spesso li distruggevano. Naturalmente il movimento, appena prese un po’ di corpo, fu soffocato nel sangue. La borghesia industriale e l’ineluttabile Progresso avanzavano i loro diritti.

I ragazzi del Luddite Club non distruggono macchine, fanno una cosa più intelligente: non comprano o comunque non utilizzano gli smartphone e si tengono alla larga dai social. Per loro è una questione di ecologia mentale. Sono quindi più avanti dell’ecologismo alla Greta Thumberg (chiamata sprezzantemente “gretina” dai cretini, in genere di destra). Il disfacimento ecologico lo vedono tutti, anche se poi in concreto non si fa nulla per fermarlo se non con le truffe del “bio” e del “green”, moltissime imprese sono diventate improvvisamente “bio” e “green” nonostante si sappia bene che con la globalizzazione la “filiera corta” è impossibile, come è impossibile tornare all’ “economia di sussistenza” vale a dire autoproduzione e autoconsumo.

Questi ragazzi si sono resi conto che la devastazione mentale portata dal digitale è più insidiosa di quella materiale. Incontrati per strada, come dovrebbe fare ogni buon cronista, in questo caso Viviana Mazza del Corriere, alla domanda di cosa mai stessero facendo, hanno risposto: “passiamo semplicemente il tempo”. Che non è il famigerato “tempo libero” che è ancora un tempo di consumo, ma il tempo “liberato” come l’ha chiamato, sia pur esprimendosi nel consueto modo un po’ confuso, il mio amico Beppe Grillo che può essere considerato, sia pur a distanza d’oceano, l’ispiratore di questo moderno luddismo. Naturalmente ci vuole una bella forza per imboccare questa strada, perché vuol dire essere tagliati fuori, “tf” nel linguaggio dei ragazzi, da un contesto sociale come l’attuale. Ma forse è meglio avere quattro o cinque amici in carne e ossa che rapporti con migliaia di fantasmi sparsi per il mondo.

Il pensiero del Luddite Club si lega ad altri fenomeni collaterali presenti anche in Italia: il grande aumento delle dimissioni volontarie, il rifiuto di fare anche un solo minuto in più di straordinario (niente mail a casa o sullo smartphone, non rompetemi i coglioni quando sto per i fatti miei). C’è insomma nei giovani una forte esigenza di avere più tempo dedicato a se stessi, alle proprie predilezioni esistenziali, e meno al lavoro. Il Tempo è il grande valore della vita tanto più che, parlando in termini cosmici, ne abbiamo così poco. “Il tempo è denaro” poteva dirlo solo un soggetto psichiatricamente disturbato come Benjamin Franklin. E in epoche più sagge San Paolo definiva il lavoro “uno spiacevole sudore della fronte”. E anche se adesso non sudiamo materialmente più (Paolo si riferiva al mondo contadino) il concetto è lo stesso. In molti paesi, Germania, Francia, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svizzera, si è cercato di assecondare questa montante esigenza con la “settimana corta”, si lavora cioè fino al giovedì.

Quel che è certo è che noi abbiamo utilizzato malissimo la tecnologia. Potevamo usare la tecno perché lavorasse, almeno in parte, al posto nostro. In fondo è il vecchio “lavorare meno, lavorare tutti”. Invece abbiamo usato la tecnologia digitale per sbattere fuori la gente dal mondo del lavoro e metterla sulla strada. Faccio un esempio proprio minimale: ai caselli autostradali non ci sono quasi più degli umani, ma degli automatismi che sbrigano la faccenda (se poi saltano ci sono code di ore). E quelli che stavano ai caselli? Devono industriarsi a cercare un lavoro anche peggiore.

Il problema è sempre il solito: ribaltare questo modello di sviluppo che ho chiamato “paranoico”. Il Covid, o per meglio dire il lockdown, poteva essere un’ottima occasione. Chiusi in casa potevamo capire – qualcuno l’ha capito – che di certe cose, di certi bisogni eterodiretti potevamo fare tranquillamente a meno. Che di certi bisogni non avevamo alcun bisogno. Invece vedo che continua a prevalere la pazzesca legge di Say: l’offerta crea la domanda. È il macchiavello, insieme all’invidia, su cui si regge tutto il sistema. Purtroppo l’uomo è l’animale più tragico, perché è lucidamente consapevole della propria fine, ma anche il più stupido del Creato: “resisto a tutto fuorché a una tentazione” diceva ironicamente Oscar Wilde.

Il Fatto Quotidiano (1 marzo 2023)

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Ho conosciuto Maurizio Costanzo nel suo momento più buio, quando si era bruciato sul braciere della P2 e tutti, anche coloro che gli avevano fin lì leccato i piedi, anzi soprattutto costoro come vuole la consuetudine flaianesca italiana (salire sul carro del vincitore, picchiare sul perdente) lo schienavano. Il suo isolamento era impressionante, quasi un quadro di de Chirico, i personaggi si rifiutavano di andare al suo show – aveva penosamente ricominciato da Rete4 – e lui stesso si vergognava persino ad uscir di casa.

La nostra conoscenza ed anche un briciolo di amicizia risale a quel periodo (naturalmente ero stato molte volte al suo show, ma in quei casi i rapporti erano del tutto superficiali, Maurizio si limitava a chiedermi che cosa pensavo di dire, per appropriarsene o per tapparmi la bocca al momento opportuno a seconda che gli facesse più comodo). Gli feci quindi un’intervista post P2 per Amica in cui non gli scontavo nulla ma davo atto a quest’uomo, precipitato da un giorno all’altro dalle vette del successo alla polvere, del lavoro, della fatica, della grandissima forza di volontà con cui stava cercando di rialzarsi. Fra i più accaniti e feroci con Costanzo c’erano i giornalisti della Rizzoli-Corriere per la quale Costanzo era stato adulato direttore dell’Occhio e della Domenica del Corriere (due fallimenti). Per questo era importante per lui ritornare, sia pur come intervistato, su un giornale del Gruppo come era Amica. E infatti Pietroni, il direttore di Amica, ebbe delle grane con i sindacalisti della Rizzoli molto predisposti al linciaggio (in questo come in altri casi, Tobagi docet). Costanzo mi è sempre stato grato per quell’articolo e, interpretando la cosa a modo suo, un po’ “mafiosetto”, come un favore mentre per me era solo un articolo scritto nei termini che mi parevano più giusti. Quando fu tornato in auge mi invitò ripetutamente al suo show per sdebitarsi di un debito che non aveva.

Nell’intimo Maurizio non era un uomo cattivo, solo un po’ vile. Non cercava mai lo scontro diretto, frontale di cui aveva orrore e un timore quasi fisico, la sua tattica era avvolgente e aveva trasmesso questo metodo anche alla moglie, Maria De Filippi (naturalmente parliamo di allora – siamo nei primi anni 90 – in seguito i rapporti di forza fra i due sarebbero cambiati, anzi si sarebbero ribaltati). Una volta che vidi la De Filippi in quel suo infame programma, Padri e Figli, le tolsi i panni di dosso sul Tempo di Roma. Lei, che non mi conosceva, mi telefonò la sera stessa, a casa, dimostrandosi dispiaciuta e attenta alle critiche che le avevo mosso. Un modo di fare democristiano, tutto sommato, visto che cosa è venuto dopo la DC, meno sgradevole di altri.

È una comica leggenda metropolitana che Costanzo fosse un uomo di sinistra, utile a Berlusconi per dire che sulle sue TV c’erano anche degli oppositori. Pupi Avati, che fu uno dei pochissimi amici, tre in tutto, a rimanergli vicino all’epoca dello scandalo P2, ed è quindi una fonte non sospettabile di astio, mi ha detto una volta: “Maurizio è antropologicamente fascista”. Io non mi spingo così lontano, dico che era un qualunquista della più bell’acqua. Inoltre, cosa rara per chi aveva milioni di fan adoranti, era uno che non se la dava.

Costanzo aveva il mito del lavoro, cosa singolare per un romano de Roma, si realizzava nel lavoro, fuori non esisteva. Mi capitò una volta di andarci a cena, con Nantas Salvalaggio e un altro giornalista che non ricordo, e lui fece praticamente scena muta. Del resto il suo orizzonte culturale non andava e non è mai andato oltre la Garbatella. Diventava protagonista e domatore solo sul palcoscenico, dove usava una frusta morbida, vellutata, insidiosa e spietata con i deboli, e pronto ad aprire il ventaglio dell’adulazione e dell’ossequio con i forti.

Il primo Costanzo, quello, se non ricordo male, di Bontà loro, faceva simpatia perché, con un fisico così insignificante, impersonava l’uomo della strada che punzecchiava, sia pur con prudenza, i potenti, e il pubblico si immedesimava.

Qualche anno dopo la vicenda P2, quando lui era tornato in grande spolvero, poiché passavo le vacanze nella vicina Talamone, era agosto, andai a trovarlo nella sua villa di Ansedonia, che affittava come ci tenne a precisare perché non aveva i soldi per comprarsela. Dopo aver attraversato un immenso parco, scortato dalle sue guardie del corpo e da numerosi famuli, entrai nella villa e lo vidi al centro di un grande salone, in piedi, con indosso una larghissima camicia (era già dimagrito) lunga fin quasi alle ginocchia, che gli dava un’aria da satrapo orientale, un po’ lascivo, con un telefonino in mano che non abbandonò un istante, facendo mille chiamate o ricevendone, nelle due ore che stetti lì. “Cosa vuoi, se non lavoro mi annoio a morte”, mi disse vedendo il mio sguardo perplesso e interrogativo. Durante il mese di agosto, che dovrebbe essere di riposo, organizzava il lavoro dell’annata. Sotto le sue finestre aveva uno degli angoli di mare più incantevoli d’Italia, fra l’incontaminata Feniglia e il litorale esclusivo di Ansedonia, ma non andava mai a fare il bagno. Praticamente non usciva mai, o quasi, stava lì rintanato nella sua villa o, al massimo sulla terrazza con una piscina che non usava, come un grosso ragno al centro della sua tela, e lavorava. Lei, Maria De Filippi, invece no, lei usciva, andava a cavallo, si divertiva. Quel pomeriggio la incrociai per un attimo, vestita appunto da cavallerizza, e mi parve più bella e affascinante di com’è in televisione. C’era un forte contrasto fra i tratti androgini, duri nella loro regolarità, di lei e la cedevolezza e la mollezza che era di lui. Mi parvero una buona coppia, affiatata, complice. 

Avendo avuto successo con un talk show, Costanzo aveva una fiducia illimitata, infantile e un po’ comica nel potere taumaturgico della parola. Qualsiasi situazione si presentasse, la sua reazione era: “Parliamone”. Uno si è rotto la gamba? “Parliamone”.

Durante il lockdown, non avendo di meglio da fare, ho rivisto programmi del passato fra cui molti Costanzo Show. Devo dire che rivisti oggi sono, a parte l’insopportabile ‘TV del dolore’, molto meno banali di quanto mi apparivano un tempo: persone che raccontano le loro storie, i loro drammi, il loro vissuto, artisti, politici, il tutto tenuto insieme da un filo psicanalitico o sociologico, comunque da un tema di fondo anche se non particolarmente profondo.

Non pensi il lettore che questa mia sia la solita sviolinata ad un uomo che è morto. Anche questa volta non ho scontato nulla a Maurizio, come in quell’intervista su Amica in un lontano giorno di ottobre.

Il Fatto Quotidiano (26 febbraio 2023)