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L’uomo è il ministro della Natura, alla natura si può comandare solo obbedendo ad essa (Francesco Bacone)

 

Bisognerebbe che prima o poi noi facessimo una riflessione, per usare il linguaggio da beccamorti dei politici, sul modello di sviluppo che chiamiamo ‘occidentale’ ma che, dimostrando di essere molto attraente, ha sfondato anche in culture diversissime come quelle indiana e cinese (nel suo Il libro della norma Lao-Tse, cinese, sostiene la in-azione e nel Buddhismo l’obbiettivo è raggiungere il nirvana,  cioè uno stato di atarassia). Cioè sono culture in totale contrapposizione col dinamismo delle nostre società.

L’attuale modello di sviluppo si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica (tu puoi sempre aggiungere un numero), non in natura. Verrà un giorno, non poi così lontano, in cui non potremo più crescere. Siamo come una lucente macchina che con la Rivoluzione industriale è andata aumentando continuamente la sua velocità ma poi si trova davanti un muro e pretende di dare ancora di gas e fonde il motore. Ne La Ragione aveva Torto? affronto il problema così: “Io vedo l’uomo moderno  scendere una ripidissima strada in sella ad una splendente bicicletta senza freni: all’inizio era stato piacevole, per chi aveva pedalato sempre in salita e con immane, penosa fatica, lasciarsi andare all’ebbrezza e alla facilità della discesa, ma ora la velocità continua ad aumentare e si è fatta insostenibile, finché ad una curva finiremo fuori”(oltre La Ragione vedi Cassandra, pièce teatrale con Elisabetta Pozzi).

Noi pensiamo di salvarci con la Tecnologia (non la Scienza che, in quanto pura conoscenza, è consustanziale all’uomo), ma la tecnologia “come risolve un problema ne apre dieci altri ancora più complessi” (Paolo Rossi, che non è l’ex centravanti della Nazionale e nemmeno il comico, ma un grande filosofo della scienza).

Una volta avviato, il processo diventa irreversibile, anzi per sua coerenza interna deve sempre accelerare. Ma oltre a questa ineluttabilità c’è la stupidità dell’uomo, in particolare dell’uomo moderno. Può darsi però che sia proprio questa stupidità ad abbreviare la nostra agonia: con la Bomba Atomica. Mi ha detto una volta Edoardo Amaldi, uno che se ne intendeva perché partecipò al progetto dell’Atomica: “Se l’uomo può fare una cosa, prima o poi la fa”. I nostri Capi sono così idioti che posso arrivare anche a questo. Joe Biden per ammonire i russi ha citato l’Armageddon e si è dato la zappa sui piedi perché l’Armageddon è un luogo fetido, almeno secondo l’Apocalisse di Giovanni, dove alla fine dei tempi tre spiriti immondi raduneranno tutti i Re. Loro ci saranno, noi sudditi no.

La Bomba, come capiscono tutti, tranne i Capi, significa la fine del mondo. È come darsela sui piedi, perché le radiazioni non rispettano i confini e in questa ipotesi non si salveranno nemmeno gli innocenti indigeni delle isole Andamane.

Non siamo stati sempre così stupidi. Alle nostre spalle, di noi europei intendo (gli americani hanno una cultura da cowboy, o piuttosto nessuna cultura, ed è per questo che il termine ‘Occidente’ è equivoco, perché accomuna storie molto diverse) ci sono i Greci, che hanno avuto la cultura più profonda che sia comparsa in Europa (sul piano esistenziale nelle loro tragedie, Eschilo, Euripide, Sofocle, c’è già tutto). Avevano matematici/filosofi, Pitagora e Filolao per dirne solo due, per cui sarebbero stati in grado di costruire macchine molto simili alle nostre (non fino al digitale, a questo non potevano arrivarci) ma pensavano che fosse pericoloso andare a modificare e replicare la Natura. Per dirla nel loro linguaggio la hybris, il delirio di onnipotenza dell’uomo, provoca la fthóhnos ton theon, l’invidia degli dei e quindi l’inevitabile punizione. Molti miti greci, da Prometeo in su e in giù, sono orientati in questo senso.

Ma veniamo alla Tecnologia in corso d’opera. È vero che della tecnologia si può fare, singolarmente, un uso “euristico e intelligente” come diceva Giulio Giorello, ma a livello di massa la tecnologia è, ed è sempre stata, impoverente e alienante. È ben vero che noi oggi possiamo interloquire con un tipo che sta in Giappone, e anche vederlo e farci vedere, ma cosa ben diversa è parlare faccia a faccia con un uomo in carne ed ossa.

I dinosauri furono buttati fuori dalla Natura perché erano troppo grossi, troppo ingombranti. Noi oggi, con l’enorme protesi tecnologica che ci portiamo appresso, siamo diventanti troppo grossi e troppo ingombranti. Prima o poi, più prima che poi, la Natura sbatterà fuori anche noi.

Utilizzando la metafora della bicicletta: non cerchiamo nemmeno di frenare, anzi incentiviamo sempre più un modello che ho chiamato “paranoico” (il “produci, consuma, crepa” dei CCCP). Del resto anche Bacone, che pur è uno dei padri della rivoluzione scientifica, ha così presente la delicatezza e la pericolosità dei rapporti con la Natura che afferma: “L’uomo è il ministro della Natura, alla natura si può comandare solo obbedendo ad essa”. E ancora negli anni Trenta Martin Heidegger poneva la questione fondamentale dell’ambiguità e dell’ambivalenza della Tecnica.

In questa società forsennatamente dinamica, dove salito un gradino bisogna farne un altro e poi un altro ancora per non essere buttati fuori, come singoli, dal sistema, non abbiamo mai il tempo per noi stessi (anche il famigerato “tempo libero” è un tempo del consumo e in questo ci aveva azzeccato, sia pur nel suo modo nebuloso, Beppe Grillo con la concezione del “tempo liberato”). Qualche sintomo di un’inversione di tendenza però c’è. In un interessante articolo per il Corriere (7/10) Mauro Magatti, sociologo ed economista, segnala che i giovani più che al lavoro, quel lavoro da “schiavi salariati” che riguarda la maggioranza, sono interessati a una vita più piena, maggiormente equilibrata “tra le diverse componenti dell’esistenza”. In fondo basterebbe tornare al vecchio e caro “lavorare tutti, lavorare meno”.

Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2022

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Nel 2003 partecipavo alla trasmissione di Floris, c’erano Massimo D’Alema e Giulio Tremonti e quindi un parterre di tutto rispetto. Ma c’ero anche io. Allora, quando ero ancora “splendido splendente”, le mie posizioni erano quasi sempre criticate ma ciò che dicevo era preso sul serio. Si arrivò a parlare di Serbia. Nel 1999, quando la Serbia fu aggredita, D’Alema era presidente del Consiglio. L’aggressione era opera degli americani, ma D’Alema e tutti i D’Alema della terra giudicarono non solo legittimo ma determinante l’attacco alla Serbia in pieno contrasto con le norme del diritto internazionale. La questione Serbia-Kosovo è omologa, anche se a senso invertito, a quella Russia-Ucraina-Donbass. Se si bombarda per 72 giorni una grande e colta capitale europea come Belgrado, cioè con un precedente come questo, è poi difficile attaccare Putin se bombarda Kiev. C’è inoltre una differenza: gli Stati Uniti erano a diecimila chilometri di distanza dalla Serbia e dal Kosovo, tanto che Bill Clinton dovette prendere una grande carta geografica e come un maestrino cercare di spiegare agli americani dove fosse questo misterioso Kosovo. Putin questi problemi ce li ha ai confini della Russia.

Milosevic aveva firmato la pace di Dayton che aveva messo fine alla feroce guerra slava. Ma Milosevic aveva un’altra pecca: la Serbia era l’unico paese europeo rimasto socialista o, secondo le interpretazioni, paracomunista d’Europa. E mentre un tempo per l’intellighenzia europea era sufficiente essere di sinistra per avere ragione, dopo la cosa si è capovolta: era sufficiente essere socialista o, se si preferisce, paracomunista per avere torto.

In un coraggioso articolo per il Fatto (2/10/2022) il generale Mini, che certamente di queste cose s’intende più di me, scrive ironicamente: “Noi cosiddetti ‘occidentali’ siamo i paladini del diritto internazionale”. Già, negli ultimi vent’anni gli americani, spesso seguiti, anche se non sempre, in modo canino dai paesi europei, mascherando la sudditanza di questi ultimi con fantasiose “coalizioni dei volenterosi”, hanno violato, cominciando proprio dalla Serbia (1999), ogni norma di diritto internazionale, sia quella che vieta di aggredire uno Stato sovrano accreditato all’ONU, sia quella sottoscritta ad Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo che sancisce il “diritto all’autodeterminazione dei popoli”. Lo hanno fatto in Iraq nel 2003 (la Germania si dissociò dai “volenterosi”, così come la Spagna quando fu eletto il socialista Zapatero), per il petrolio e non perché Saddam Hussein possedesse armi chimiche, le aveva avute queste armi, gliele avevano date proprio gli americani, i francesi e i sovietici in funzione anti-iraniana e anti-curda, ma al momento dell’attacco non le aveva più perché le aveva già scaricate sui soldati iraniani e sui curdi (strage di Halabja, un’intera cittadina “gasata” in un sol colpo, 5000 morti). Infine c’è l’aggressione alla Libia (2011), Stato sovrano accreditato all’ONU, del colonnello Gheddafi. Tutte queste aggressioni non avevano il patrocinio, ma la condanna, dell’ONU.

Un discorso a parte merita l’Afghanistan, l’Afghanistan talebano del Mullah Omar. L’aggressione questa volta aveva il patrocinio dell’ONU perché si pensava che i Talebani fossero responsabili, direttamente o indirettamente, dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma qualche dubbio avrebbe dovuto esserci fin dall’inizio. Non c’erano afgani, tantomeno talebani, nel commando che distrusse le Torri Gemelle, c’erano sauditi, tunisini, marocchini, egiziani, giordani, algerini, arabi insomma (gli afgani non sono arabi). Non c’erano afgani, tantomeno talebani, nelle cellule di Al Qaeda scoperte dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Comunque ora è stato accertato che la dirigenza talebana dell’epoca era completamente all’oscuro di quell’attacco. L’attacco all’Afghanistan perde dunque la copertura ONU e si trasforma in un’operazione NATO chiamata  Resolute Support Mission. In un discorso all’ONU Muammar Gheddafi affermò che la questione afgana era tutt’altro che chiara, e questo fu uno dei motivi che portarono all’aggressione alla Libia e all’omicidio di Gheddafi che fu torturato e sodomizzato da alcuni insorti (quegli ‘insorti’ che stesi a pancia all’aria invocavano l’aiuto di Sarkozy) alla presenza delle truppe francesi che non mosse un dito per fermare quell’abominio.

La guerra all’Emirato Islamico d’Afghanistan, come il Mullah Omar volle che si chiamasse lo Stato di cui era a capo, è stata una guerra puramente ideologica perché l’Afghanistan è un paese poverissimo, privo di quelle risorse energetiche che fanno tanto gola agli occidentali. Non ci piacevano i costumi di quella gente. E siccome non ci piacevano quei costumi abbiamo iniziato una guerra durata vent’anni, con un bilancio di 300.000 morti civili, ma probabilmente in difetto. Non contiamo ovviamente i Talebani perché, a differenza dei civili, erano dei guerriglieri consapevoli dei rischi che correvano. Devo dire che quando i Talebani nell’agosto del 2021 sono entrati a Kabul ho avuto una sorta di eiaculazione. Ero stato l’unico in Occidente a difendere le loro ragioni, o per lo meno a cercare di comprenderle (Il Mullah Omar, 2011 ). Non condivido nulla dell’ideologia sessuofobica talebana ma, come mi è toccato spiegare millanta volte, io difendevo il diritto di un popolo, o di parte di esso, ad opporsi all’occupazione dello straniero. Altrimenti prendiamo la nostra Resistenza, su cui abbiamo fatto tanta retorica, che aveva l’appoggio degli Alleati e buttiamola nel cesso. I Talebani non avevano l’appoggio di nessuno. Il molto commendevole Gianni Riotta, grande esperto di esteri, ha sostenuto che i Talebani avevano l’appoggio del Pakistan. Ebbene la più grande e devastante offensiva contro i Talebani si ebbe nella valle di Swat nel 2009 ad opera dell’esercito pakistano. I morti non sono stati contati, gli sfollati sì: saranno due milioni. Il Corriere della Sera titolava: “Due milioni in fuga dai Talebani”, invece erano in fuga dall’esercito pakistano. Questa è la nostra informazione.

In questa lotta contro il più potente esercito che sia stato schierato sul campo nei tempi recenti, per una volta, per usare le parole di Francesco Guccini, c’è stata una vittoria dei “giusti sui prepotenti” (Don Chisciotte). Ma prendiamo un’altra frase di Guccini quando parla di un mondo “dove regna il capitale, oggi più spietatamente”. A questo proposito voglio raccontarvi una storia. Dopo la clamorosa fuga in moto del Mullah Omar gli americani e gli inglesi sono a caccia del Mullah. Catturano un importante collaboratore di Omar, Abdul Salam Zaeef, sanno che non è un uomo particolarmente coraggioso, né un talebano fanatico, e quindi pensano di potergli scucire dalla bocca ciò che solo gli interessa: dare indicazioni su dove si trova Omar. Prima lo torturano, comme d’habitude, poi gli promettono la libertà e un mucchio di dollari. E Zaeef risponde: “Non c’è prezzo per la vita di un amico e di un compagno di battaglia”. È a quest’etica, che chiamo “prepolitica, preideologica, prereligiosa”, che io mi sento vicino. Nel “mondo del capitale” ci si vende per quattro soldi.

Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2022

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All’inizio della pandemia di Covid e delle misure che si stavano adottando per contrastarla, la Ministra svedese della Salute Lena Hallengren disse: “I conti si faranno alla fine e anche qualche anno dopo”. La Svezia non ha fatto lockdown o lo ha fatto per brevi periodi e in modo molto blando. La Svizzera non lo ha fatto del tutto. I decessi in Svezia per Covid sono stati, al momento, 20.225 su una popolazione di circa 10 milioni. In Italia sono stati 177.000 su una popolazione di 60 milioni. Quindi bisogna moltiplicare per sei il dato svedese che da una cifra di circa 120.000, inferiore di un terzo rispetto all’Italia. Si può obiettare che la Svezia ha pochissime grandi città, Stoccolma, Goteborg, Malmo, e larghissimi spazi e questo ovviamente aiuta. Ma questo discorso non vale per la Svizzera dove gli abitanti, a differenza della Svezia,  sono raggruppati in spazi limitati: i deceduti per Covid sono stati 14.000 su una popolazione di 8 milioni e mezzo di abitanti, quindi lo 0,16% della popolazione. In Italia i deceduti per Covid sono lo 0,29%.

C’è un altro dato di un certo interesse. Federico Rampini, della cui serietà non si può dubitare, ha scritto sul Corriere che in Africa i morti per Covid sono stati, in percentuale, molti meno che in Europa. Prendiamo la Nigeria: i deceduti per Covid sono stati 3.155 su una popolazione di circa 210 milioni di abitanti. E la profilassi in Nigeria, come in quasi tutti gli altri paesi africani, è stata pressoché inesistente. Mi si è obiettato che i nigeriani sono giovani e quindi meno fragili. Non è vero. Non so perché siano meno “fragili”, magari per un DNA e una struttura antropologica diversa, però l’età media dei nigeriani è di 51 anni, quella italiana è di 45 anni.

Non ho nulla da obiettare su alcune misure “minori” come le mascherine e la sanificazione, fastidiose ma certamente sopportabili. Il problema è il lockdown che è stato devastante soprattutto per quei “fragili” (come sento la parola “fragile” diretta a me metto mano alla pistola) che si voleva difendere dal contagio. Per due anni non abbiamo quasi più potuto muoverci di casa e quindi fare movimento che agli anziani è indispensabile. La scarsissima mobilità ha portato all’obesità che potremmo definire “la madre di tutte le malattie” o quasi: patologie cardiovascolari, diabete, disturbi del sonno, cancro e osteoartrosi. Inoltre agli anziani è stato impedito, per un certo periodo, la frequentazione dei figli e dei nipoti e si sono visti tagliare tutti i contatti sociali. Sono rimasti soli. E la solitudine, come si sa, uccide più del fumo.

 Inoltre la concentrazione della medicina sul Covid ha fatto si che le diagnosi per tumore siano scese del 53% e si sa quanto sia importante per questa malattia una diagnosi precoce.

Non sono né “negazionista” né “complottista”. La malattia c’è stata con effetti spesso letali e non credo proprio che Stati Uniti, Cina e i paesi europei si siano messi d’accordo per favorire le loro case farmaceutiche, che comunque su questa pandemia hanno fatto i miliardi.

C’è anche da dire che la medicina ha registrato una penosa sconfitta (constatazione che piacerebbe al Rousseau del Discorso sulle scienze e sulle arti). Lasciamo pur perdere, per carità di patria, l’incredibile superficialità dei vari epidemiologi e virologi che si contraddicevano l’un l’altro a ogni pie’ sospinto aumentando la confusione e anche la paura nella popolazione. Il fatto è che il Covid19 non veniva da Marte o era una malattia del tutto sconosciuta. Appartiene al ceppo influenzale, studiatissimo e conosciutissimo, e quindi si potevano approntare, molto prima di quanto è stato fatto, vaccini appropriati. A parte che un vaccino che ha durata di quattro mesi non è un vaccino se deve essere ripetuto periodicamente. Per la poliomielite, pressoché sconosciuta fino alla fine dell’Ottocento, ci sono voluti dieci anni per sconfiggerla definitivamente, prima col vaccino di Salk, che però non dava una copertura totale, poi con quello di Sabin.

Resto convinto, come ho già scritto su questo giornale, che la vera pandemia è stata una pandemia di panico, dovuta al fatto che nell’età del benessere e della ricerca della felicità, la morte, quella biologica intendo, non è più accettata.

Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2022

 

Avvertenza per i lettori del Fatto e di questo blog

Io, per le note condizioni, sono costretto a dettare i pezzi e perciò non ho un controllo 'visivo' sul testo e quindi, anche se poi li leggo e li rileggo con la mia assistente, qualche errore ci può sempre stare e questo mi dispiace molto perché io sono pur sempre un Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura.