0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

I figli non hanno né le colpe né i meriti dei padri. E’ in nome del padre che Ahmad Massud, figlio del “leone del Panshir”, Ahmad Shah Massud, si è intestato il diritto di essere il capo della resistenza al governo che i Talebani hanno preso nell’agosto del 2021.  Ma non ha le qualità del padre. Ha 32 anni, ha vissuto buona parte della sua vita in Gran Bretagna, non ha alcuna esperienza militare sul campo. A quell’età un talebano ha almeno 15 anni di combattimenti alle spalle.

Nei giorni scorsi  Ahmad Massud è stato in Europa per compattare la resistenza ai Talebani e rilascia interviste a destra e a manca. E naturalmente racconta frottole. I Talebani sarebbero legati al terrorismo internazionale, dice Ahmad Massud: “I legami fra il regime dei talebani e diversi gruppi terroristi internazionali sono evidenti e provati. Il rapporto con Al Qaeda è ancora molto stretto”. Questa è la frottola più grave e vergognosa. Se c’è un gruppo politico e militare che ha combattuto l’Isis (Al Qaeda non conta più nulla e comunque i Talebani non hanno nulla a che fare con Al Qaeda) sono stati i Talebani.  Nel giugno del 2015  Isis cercò di penetrare in Afghanistan. Con una lettera aperta ad Al Baghdadi, che è il suo ultimo atto politico a lui attribuibile, il Mullah Omar intimava al Califfo saudita di stare alla larga perché “noi stiamo combattendo una guerra d’indipendenza che non ha nulla a che vedere coi tuoi deliri geopolitici.”  E aggiungeva “tu stai dividendo pericolosamente il mondo islamico” (la lettera non è firmata direttamente da Omar ma dal suo vice Mansour). Questa lettera mi pareva importante ma i media internazionali la ignorarono, credo non in modo del tutto innocente: bisognava continuare a legittimare l’occupazione occidentale.

E’ ovvio che dovendo combattere contemporaneamente gli occupanti occidentali e l’Isis i Talebani persero terreno, ma la penetrazione di Isis in Afghanistan fu contro i Talebani e non viceversa. Attualmente Isis, con l’operazione Khorasan che intende aggregare allo Stato islamico del fu AlBaghdadi buona parte dell’Asia centrale e altre regioni, continua a fare attentati kamikaze in Afghanistan per screditare il governo talebano e convincere non si sa bene chi, forse proprio gli occidentali, che non è in grado di gestire il Paese.

Amhad Massud afferma che il governo afghano  “rifiuta norme e trattati internazionali”. E’ vero il contrario, il governo talebano  ha chiesto che l’Afghanistan sia rappresentato con un seggio all’Onu cui ha diritto come ogni altro Stato. Uno Stato è tale quando ha un governo, un territorio, una popolazione, e l’Afghanistan ha un governo, un territorio, una popolazione.

Su chi può contare la resistenza di Ahmad Massud? Su “3000 soldati del dissolto esercito afghano”. Quanto valesse questo “dissolto esercito afghano” lo abbiamo visto al tempo della fulminea avanzata talebana verso Kabul nell’agosto del 2021. Si è dissolto in due settimane. Era formato da ragazzi per nulla motivati. Infatti se al tempo del Mullah Omar Kabul contava un milione e 200.000 abitanti oggi ne ha più di cinque milioni. Per avere comunque un salario i ragazzi di Kabul non avevano altra scelta che arruolarsi nell’esercito ‘ lealista’ (erano così poco motivati che ogni anno tanti ne entravano e altrettanti, appena potevano, ne uscivano). Ed è pensabile che le ragioni dell’arruolamento nell’ipotetico esercito di Ahmad Massud siano le stesse.

Altra balla. Le ragazze non possono studiare. Questo non era vero nemmeno ai tempi del Mullah Omar (vedi Talebani, di Ahmed Rashid, p. 282). Attualmente, dopo gli sconquassi della guerra, le scuole e le università sono state riaperte alle donne. Del resto il governo talebano ha urgente bisogno di tecnici e specialisti perché molti, temendo rappresaglie che non ci sono state (il governo talebano, come già il Mullah Omar ha decretato un’amnistia generale) se ne sono andati dall’Afghanistan.

E questo riporta all’attualità  le responsabilità del fin troppo lodato “leone del Panshir”. E’ stato Massud padre a portare Bin Laden e i suoi uomini, che stavano in Sudan,  in Afghanistan perché lo aiutasse a combattere il suo nemico di sempre Gulbuddin Heckmatyar.  Ma la responsabilità più pesante è un’altra. Non accettando di essere stato sconfitto dai Talebani Massud ha chiamato in aiuto gli americani che senza uomini sul terreno non avrebbero mai potuto conquistare l’Afghanistan. Con questa decisione Massud ha deciso la sorte dell’Afghanistan e anche la sua. In una telefonata fra  il Mullah Omar e Massud, l’unico contatto che abbiano avuto i due seppur a distanza, Omar gli dice “ guarda che se chiami gli americani saranno loro a comandare e non tu”. Ma questa decisione fu letale anche per lo stesso Massud. Due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle verrà ucciso da due kamikaze arabi presentatesi come fotografi.  Nemmeno la prevenutissima stampa occidentale ha mai attribuito questo attentato ai Talebani. Chi sono i responsabili allora? Bin Laden no di sicuro, perché i suoi uomini e quelli di Massud avevano operato per anni nella stessa zona in buona armonia, come in buona armonia erano i due leader. Massud era un cretino politico ma un afghano integrale dalla testa ai piedi e dopo la sconfitta dei Talebani avrebbe detto agli americani: “grazie per l’aiuto che ci avete dato ma adesso tornatevene a casa vostra”. Cosa centra questo con l’istruzione femminile? Centra per un dettaglio. I Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, volevano che gli edifici femminili e maschili (non semplicemente le aule come è stato da noi finchè ho studiato io) fossero a distanza. Ma impegnati in una logorante guerra con Massud non ebbero il tempo e il modo di costruire edifici per la scuola femminile. Avevano altre priorità. E si può capirli.

 Cosa chiede Ahmad Massud agli occidentali?  Un supporto economico e  militare. Bene e allora ricominciamo un’altra guerra di vent’anni per ridurre i talebani alla ragione e alle buone maniere. Ma una resistenza durata vent’anni non può esistere se non ha l’appoggio della maggioranza della popolazione. Non si vuole accettare, molto illuministicamente, la realtà: se i talebani hanno vinto contro il più potente esercito mai schierato nella Storia è perché rispondevano, e come si vede rispondono, meglio di altri, certamente meglio degli occupanti e anche del nobile Massud, ai sentimenti e alle tradizioni della popolazione afghana.

 

Il Fatto Quotidiano, 22 Settembre 2022

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Nell’incontro di Samarcanda Xi Jinping e Putin hanno sostanzialmente sostenuto, in contrapposizione con  l’Occidente il principio della “non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano”. E’ curioso che Vladimir Putin affermi questo principio proprio nel momento in cui lo sta violando in Ucraina col pretesto di “denazificarla”. E’ però altrettanto curioso che questa posizione sia passata nei media nazionali e internazionali quasi inosservata. Perchè il principio è sacrosanto e si rifà all’accordo di Helsinky del 1975, firmato da quasi tutti gli stati del mondo, che sanciva “il diritto all’autodeterminazione dei popoli” per cui un popolo può svilupparsi, o anche non svilupparsi, evolvere, o anche non evolvere secondo la propria storia, le proprie tradizioni, i propri costumi.

Si può dire simbolicamente, sia pur con un po’ di approssimazione, che l’imperialismo moderno di marca prima yankee e poi occidentale nasca nel 1946 in Giappone quando gli americani imposero all’imperatore nipponico Hiro Hito di ‘devinizzarsi’ cioè di ammettere di non essere l’incarnazione vivente di un dio. La premessa è che quella occidentale (anche se lo stesso concetto di Occidente è molto dubbio perché Stati Uniti ed Europa non sono la stessa cosa) è la “cultura superiore” che ha il diritto, anzi il dovere, di omologare a sè tutte le altre, concetto estraneo agli imperialismi dell’antichità. I Romani furono certamente un popolo imperialista e conquistatore ma non imposero mai i loro valori ai popoli che sottomettevano, gli bastava che pagassero le tasse, cioè che li rifornissero di frumento. Erodoto dice le peggio cose dei Persiani, barbari e crudeli, ma non si sognerebbe mai di imporre loro i costumi e i valori greci. I Greci sono greci, i Persiani sono persiani. Sul piano dei valori e dei costumi ognuno deve restare a casa propria.

Anche il colonialismo europeo non aveva l’ambizione di cambiare i valori e i costumi degli indigeni, si accontentava di rapinar loro materie prime, ma non pretendeva di cambiare la vita, la socialità e nemmeno l’economia degli autoctoni che continuavano a vivere come sempre avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, cioè con un’ “economia di sussistenza”, vale a dire autoproduzione e autoconsumo.

Con l’imperialismo che ho definito “moderno” cambia tutto per le ragioni “etiche” di cui ho parlato, ma adesso anche economiche che hanno stravolto quelle popolazioni provocando, se pensiamo all’Africa Nera, quelle migrazioni bibliche che oggi tanto ci spaventano. Per molti secoli l’Africa è stata territorio delle consuete rapine di materie prime, di cui spesso gli autoctoni non sapevano che farsi, ma dal punto di vista economico, alimentare e sociale se l’era cavata benissimo, depurato il fatto di avere sulla testa gli occupanti. Ai primi del Novecento era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza, al 98 per cento, nel 1961.  Che cosa è successo dopo? L’industrialismo moderno, che è una delle tante forme che assume l’imperialismo, come direbbe Pasolini, è alla perenne ricerca di nuovi mercati perché i suoi sono saturi. Per cui anche l’Africa Nera, per quanto povera diventò un obiettivo interessante per cui bisognava vendere anche ai poveri (ovviamente il discorso non riguarda solo l’Africa ma tutti i paesi cosiddetti “sottosviluppati”). Il discorso salviniano, ma non solo salviniano, “aiutiamoli a casa loro” è una trappola. Perché in questo modo li si integra ulteriormente nel nostro modello dove non possono essere che perdenti e ultimi. All’epoca di un summit del G7 i sette paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin, fecero un controsummit al grido di: “per favore non aiutateci piu!” Insomma imperialismo economico e imperialismo culturale vanno a braccetto.

Ma torniamo a quello culturale, cioè la pretesa di omologare a sé l’universo mondo, da cui siamo partiti.  Gli occidentali, come tanti altri stati che occidentali non sono, fanno guerre per i loro interessi ma fanno anche guerre puramente ideologiche. L’esempio più lampante è l’Afghanistan talebano (premessa: è stato evidente quasi sin da subito che i Talebani non c’entravano niente con l’attacco alle Torri Gemelle, ne erano anzi all’oscuro), non ci piacevano i loro costumi e per questo abbiamo iniziato una guerra durata vent’anni, con un numero impressionante di morti civili, altro che Ucraina, che alla fine abbiamo perso nel modo più vergognoso. Perché ci sono valori prepolitici e preideologici che non sono comprimibili nemmeno schierando il più potente e tecnologicamente avanzato esercito del mondo.

 

Il Fatto Quotidiano,18  Settembre 2022

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Inserire Umberto Bossi fra le “meteore” della vita politica italiana potrebbe sembrare azzardato. Perché Bossi in politica c’è da più di mezzo secolo e in qualche modo vi resta sia pure come pallido e malato fantasma di un tempo.

E’ l’epopea di Bossi a essere stata breve, diciamo circa dal 1989 al 1994. Quando comparve per la prima volta sulla scena politica nazionale, nel 1989, quale unico eletto di un misterioso movimento, la Lega Lombarda, non fu preso minimamente sul serio. Lo stesso appellativo di “senatur” che gli fu appioppato dice che la classe politica italiana lo considerava, per il modo di porgersi, di vestire (la famosa canotta bianca in Sardegna al fianco di un irreprensibile Berlusconi), di comportarsi, una semplice stranezza o, nel migliore dei casi, un caso patetico. Ma cosa voleva costui con le sue idee stravaganti quanto confuse?

Eppure le idee dell’“Umberto” non erano né stravaganti né confuse. Le contestatissime “macroregioni” (“le tre italiette”, Ugo Intini fra i tantissimi), erano la semplice constatazione di un dato di fatto: che Nord, Centro, Sud sono regioni, socialmente, economicamente, culturalmente, psicologicamente e anche climaticamente diverse. Questa constatazione, che ci sarebbe stata molto utile in epoca di pandemia, si portava dietro, fra gli altri, il concetto, anch’esso contestatissimo, delle “gabbie salariali”. E’ del tutto evidente che un impiegato nella Pubblica amministrazione al Nord, che prende lo stesso salario di un suo corrispondente al Sud, è più danneggiato di un meridionale perché a Milano, a Como, a Treviso, la vita costa tre volte tanto.  

Ma la visione di Bossi, coadiuvato da Gianfranco Miglio, andava molto più lontano, anche utopisticamente troppo lontano come quella, per restare al giorno d’oggi, di Gian Roberto Casaleggio. Postulava che in un’Europa politicamente unita i punti di riferimento periferici non sarebbero più stati gli Stati nazionali, ma appunto “macroregioni” più coese dal punto di vista economico, sociale, linguistico (Tirolo e Alto Adige per esempio o Riviera di Ponente e Provenza per farne un altro). Idea utopica, perché l’unità politica d’Europa era molto di là da venire tant’è che non si è realizzata ancora oggi.

Bossi si era anche inventato dei miti fondativi (“il Dio Po”, la Padania). Poveri miti, ma comunque miti in un Italia partitocratica completamente priva di immaginazione e quindi di ideali.

La Lega Lombarda cominciò a essere presa sul serio quando si vide che al Nord prendeva il 40 per cento dei voti e che quindi, per usare il linguaggio dello stesso Bossi, c’era un “idem sentire”. Allora ebbe inizio da parte della burocrazia partitocratica una campagna di denigrazione e di violenza quale nemmeno le Brigate Rosse avevano conosciuto. Qualcuno ricorderà, forse, l’irruzione della Digos nella sede della Lega, partito politico rappresentato in Parlamento, caso unico nella storia dell’Italia repubblicana. E ricorderà, forse, la fotografia di Roberto Maroni steso a terra, privo di conoscenza, cui Bossi sorregge il capo.

La Lega di Bossi, a differenza di quella di Salvini, non era razzista. La mitica “Padania” era di chi ci vive e ci lavora senza andare a fare controlli del sangue sulle sue origini. Naturalmente i cronisti andavano nelle più profonde valli bergamasche per farsi dire qualcosa di antimeridionale.

Ho conosciuto molto bene Umberto Bossi. Era un uomo semplice ma nient’affatto rozzo. Basta andare a rileggere il discorso alla Camera del 21 dicembre 1994 in cui fece cadere il primo governo Berlusconi: non c’è una sbavatura né istituzionale, né logica, né, tantomeno, grammaticale.

A Bossi, pur al massimo del suo successo, piaceva la vita semplice, anche se non era un uomo semplice. Non fa parte della leggenda il fatto che uno dei suoi maggiori piaceri fosse mangiarsi una pizza non in luoghi lussuosi ma nel primo posto raggiungibile. Gli mancava totalmente la spocchia dell’uomo politico. Quante volte Vimercati e io, a cena la notte, gli telefonavamo dicendogli “Siamo qui, ci raggiungi?” e lui, se non aveva altri impegni che lo opprimevano, arrivava dopo una mezz’oretta.

Una volta mi telefonò per chiedermi se ero disposto a dirigere L’Indipendente. “Be’, vieni a casa mia e ne parliamo”. Questo quando qualsiasi uomo politico di mezza e di mezzissima tacca, per avere un incontro con un qualsiasi boss, ti fa passare per mille intermediari. Quando fu a casa mia, seduto sull’ormai mitico divano rosso, forse intimidito dai tanti libri, indicando un alto scaffale disse “Quella è La ragione aveva torto”. “Sì Umberto, è proprio la Ragione” anche se non era vero. La grande capacità di Bossi era di assimilare tutto ciò che vedeva, ascoltava e anche quel poco che leggeva per poi usarlo ai propri fini. Che, secondo me, è il vero segno dell’intelligenza.

Umberto Bossi era un uomo di passione e gli uomini di passione ci lasciano quasi sempre la pelle, o quasi, prima degli altri. Alcuni esempi, anche recenti, lo confermano.

Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2022