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La morte di Silvia Tortora ha riportato alla memoria la drammatica vicenda di suo padre Enzo, il famosissimo presentatore di Portobello, arrestato all’hotel Plaza di Roma (17 giugno 1983), esibito in manette, condannato e alla fine, dopo tre anni di penoso calvario, assolto dall’accusa di essere un camorrista.

Sono stato il primo a difendere Tortora (non Biagi, non Bocca che arrivarono molto dopo, dimenticanza, veniale, in cui incorre anche l’amico Verdelli), con un articolo pubblicato sul Giorno solo sette giorni dopo l’arresto e che titolai: “Io vado a sedermi accanto a Tortora” (lo si può ritrovare nel mio libro Il conformista pag. 121-124). Ovviamente in quel momento non potevo sapere se Tortora fosse colpevole o innocente. Diversi sono i motivi che mi spinsero a scrivere quell’articolo che poteva apparire azzardato. Il primo è il disgusto. Disgusto per il linciaggio che si scatenò immediatamente contro il presentatore da parte dell’opinione pubblica e di molti media. C’era in questo linciaggio la meschina e piccina soddisfazione di far pagare in un colpo solo a un personaggio famoso la sua popolarità. Era accaduto una decina di anni prima anche ad Alain Delon. A sfavore di Tortora giocava anche il fatto che in quegli anni di orgiasmo sinistrorso, quando quasi tutti gli intellettuali e quasi tutti gli artisti erano di sinistra, lui si permetteva di essere un uomo di destra (ma io direi piuttosto un autentico liberale). Il secondo è personale. Conoscevo Tortora dal  1971 quando seguivamo entrambi, da sponde opposte, lui per il Resto del Carlino, io per l’Avanti!, il processo ai sei ragazzi anarchici accusati per le bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera di Milano. Io ero innocentista,  lui colpevolista. E ci fu anche in quel caso una sorta di linciaggio. Il pubblico era tutto di anarchici e qualcuno più scalmanato degli altri tentò di aggredirlo. Fu salvato a stento dalla polizia. Il giorno dopo quell’episodio in sala stampa nessuno dei colleghi osava avvicinarglisi, come fosse un appestato (era questo il vero linciaggio). Tortora, pallidissimo, se ne stava isolato. Mi alzai e, fra lo stupore dei miei amici anarchici e dei colleghi, andai a sedermi accanto a Tortora, mi presentai perché non gli avevo fin lì mai rivolto la parola, gli diedi la mano e cominciai a chiacchierare con lui. Fu l’abbozzo di quella che sarebbe diventata in seguito un’amicizia. Tortora era un uomo colto, elitario e anche un po’ sprezzante, con una radicata vocazione all’indipendenza. E  a me sembrava impossibile già allora in quel giugno del 1983 che un simile uomo, che non si sarebbe iscritto nemmeno ad una bocciofila, avesse potuto aderire a un’organizzazione come la camorra dove uno, in cambio di protezione, rinuncia alla propria indipendenza, alla propria anima, a se stesso.

Il terzo motivo è strettamente giuridico. Quasi subito venne fuori che Tortora era accusato sulla base di dichiarazioni di  “pentiti”  che si riferivano a dichiarazioni di altri pentiti, insomma “de relato” come si dice in gergo giuridico. Erano gli effetti perversi delle leggi sui “collaboratori di giustizia” volute nel 1982 dal governo per combattere i terroristi ma che si sarebbero rivelate una mina pericolosissima perché, come denunciai in un articolo sul Giorno del 2 dicembre 1981 (“Sono contro il condono ai pentiti”), da allora sarebbe bastata la parola di un mascalzone, purché mascalzone, per far finire in galera un innocente. È quanto avvenuto puntualmente nel caso Tortora, che però è solo il più famoso ma ha distrutto la vita anche di molti altri innocenti.

Nei periodi di libertà provvisoria fui più volte ospite a cena, in via Piatti 8, nella casa di Tortora che mi era grato per quel mio intervento. Conobbi così la sua compagna, Francesca Scopelliti, la sorella Anna, autrice, fra le altre cose, di Portobello e strettissima collaboratrice del presentatore e il marito di lei, il dottor Carozza. In quelle occasioni Enzo Tortora riusciva a conservare il suo aplomb ma si sentiva che era un uomo profondamente scosso. E non per nulla fece appena in tempo, una volta risultato innocente, a riprendere Portobello, che morì di tumore nel 1988. Oserei dire che fu un tumore psicosomatico.

Mi ricordo che Anna Tortora, che morirà anch’essa di tumore ma molti anni dopo, si infuriava quando nell’ambito delle inchieste di Mani Pulite i corruttori e i corrotti si permettevano di paragonare, strumentalmente,  le loro vicende a quella di suo fratello. Perché nel caso degli inquisiti di Mani Pulite le accuse non si basavano su dichiarazioni di “pentiti”, ma su carte, documenti bancari, confessioni. Questo lo dico a pro di coloro che, di destra o di sinistra che siano, si sono scoperti “garantisti” solo quando sott’inchiesta sono finiti i politici, ma che a suo tempo non hanno difeso né Tortora, né Valpreda, né Naria, né tanti altri stracci che han fatto anni di carcere da innocenti. È il famoso “garantismo a targhe alterne”.

Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2022

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Se Draghi va al Quirinale noi usciamo dall’attuale maggioranza, cade il governo e si va ad elezioni anticipate. Questo è il senso della manovra attribuita, e men che meno smentita, a Silvio Berlusconi. Che si vada ad elezioni anticipate, per chiarire una situazione confusissima, è ciò che anche noi ci siamo augurati nell’articolo scritto per il Fatto l’11 gennaio, ma l’intento dell’ex Cavaliere è tutt’altro. Non ci vuole un genio per capire che Berlusconi vuole che Mario Draghi resti premier in modo che non gli faccia ombra nella corsa verso il Quirinale in cui è decisissimo a competere e non da figurante. È perlomeno un anno che l’uomo di Arcore e ora anche di Villa Grande lavora per questo obiettivo. Fa il moderato, l’europeista, cerca di tenere buoni rapporti anche con i partiti che gli sono tradizionalmente più avversi, il Pd e persino i 5 Stelle cui ha graziosamente concesso che il reddito di cittadinanza, prima sputacchiato, oltre che da lui, da tutti i suoi media, non è poi una così cattiva cosa. Sono convinto che sarebbe addirittura disposto ad un abbraccio con quella Magistratura cui è sempre stato, per comprensibili motivi, ferocemente avverso (dalla Spagna definì nientemeno che “criminale” la Sentenza che lo condannava per una colossale frode fiscale). Insomma cerca di accreditarsi in tutti i modi come “pacificatore” e “uomo super partes” che è il ruolo che la Costituzione affida al Presidente della Repubblica.

La sorprendente uscita di Berlusconi è passata fra la sostanziale indifferenza dei media e della classe politica o è stata avversata in termini così  flebili da avvalorarla. Enrico Letta, l’unico, mi pare, che abbia alzato un laio ha affermato che Berlusconi non può fare il Presidente della Repubblica perché è il capo di un partito politico ed è quindi un uomo divisivo. “Divisivo” Silvio Berlusconi lo è da un quarto di secolo,  cioè da quando nel 1994 entrò in politica. Ma non è questo il vero ostacolo alla sua candidatura come Presidente della Repubblica italiana. Si tratta di un uomo che è stato condannato in via definitiva per un’evasione fiscale di 7 milioni di euro che non è che una minima parte di quella che è finita sotto la mannaia delle prescrizioni, degli indulti, delle leggi ad personam. Di un uomo che ha goduto di nove prescrizioni in tre delle quali la Cassazione ha accertato che i reati che gli erano attribuiti li aveva effettivamente commessi. Di un uomo che ha tre processi in corso per corruzione. Di un uomo di cui è stato accertato, attraverso due sentenze, quella del 2.5.2008 che assolveva Giovanni Ruggeri autore del libro “Berlusconi. Gli affari del Presidente”, l’Espresso e il sottoscritto e quella del Tribunale di Roma del 21.4.2021 che riguarda me solo,  che in combutta con l’avvocato Cesare Previti aveva truffato per miliardi una minorenne, orfana di entrambi i genitori periti in circostanze tragiche.

Se l’elezione del Presidente della Repubblica fosse diretta espressione dei cittadini di questo Paese dubito molto che, nonostante il generale abbassamento etico della nostra popolazione, Silvio Berlusconi avrebbe una qualche possibilità di salire alla più alta carica dello Stato. Che ne penserebbe, poniamo, un cittadino che per tutta la vita ha pagato le tasse (esistono anche di questi imbecilli) e che viene inseguito senza pietà dall’Agenzia delle entrate per un banale disguido amministrativo o per una multa stradale? Che ne penserebbero i cittadini della moralità di un uomo che ha truffato un’orfana minorenne che è come picchiare per strada un bambino? Non voglio credere che siamo scesi così in basso da accettare che si picchino i bambini per strada.

Personalmente ho difeso Berlusconi sulla questione, troppo spesso strombazzata, delle cosiddette “feste eleganti”,  perché il Presidente del consiglio, come qualsiasi altro cittadino, in casa sua ha diritto di fare ciò che più gli pare e piace, sempre che non vi commetta reati. E l’ho difeso anche nella vicenda di “Ruby rubacuori” perché oggi molto spesso una ragazza di 17 anni è minorenne solo per l’anagrafe. Quello che conta non è la moralità privata di un aspirante alla Presidenza della Repubblica, ma quella pubblica quando si è messa in contrasto con le leggi dello Stato italiano.

Ci sono poi da notare, per incidence e in subordine, altre cose. In quasi tutti i casi giudiziari che lo hanno riguardato Berlusconi quasi mai si è difeso solo nel processo (come hanno invece fatto Andreotti e Forlani) ma più spesso fuori dal processo dimostrando di non credere affatto alle Istituzioni dello Stato, in particolare alla Magistratura che ne è la garante. Per questo in uno dei miei articoli ho osato azzardare, venendone assolto, un paragone con Renato Vallanzasca. Vallanzasca non ha mai contestato il potere e il diritto dello Stato a punirlo per i suoi delitti, Berlusconi, in linea generale, si è comportato nel modo opposto. Insomma ha contestato quelle Istituzioni di cui pretende di diventare il massimo rappresentante e in particolare la Magistratura di cui, attraverso il Csm, diverrebbe paradossalmente il Capo.

Sempre in via subordinata. Il Presidente della Repubblica rappresenta l’Italia all’estero e Berlusconi nel periodo in cui è stato premier ci ha esposto a memorabili gaffe internazionali che qui è inutile ricordare. Il Presidente della Repubblica ha impegni assai gravosi, molti dei quali all’estero. In che modo Silvio Berlusconi, che ha 85 anni e ha subìto tre gravi operazioni,  potrebbe onorarli? Una cosa è tenere un meeting tra i suoi e i suoi amici a Villa Grande, altra è viaggiare per l’intera Europa e magari oltreoceano.

Sulla strada di “Berlusconi for President” ci sono però alcuni ostacoli. Deve ottenere l’appoggio incondizionato dei suoi alleati, Lega e Fratelli d’Italia, perché l’uscita dal governo della sola Forza Italia, che attualmente è attestata al 7%, non è in grado di far cadere l’Esecutivo.  Sarebbe disponibile l’intera Destra a coprirsi di fango, perché di questo si tratta, per il solo beneficio di un suo esponente di minoranza? Inoltre la caduta del  governo comporterebbe la perdita della poltrona, e degli annessi privilegi, per moltissimi parlamentari in virtù della legge, voluta dai Cinque Stelle, che ne ha diminuito il numero.

Eppure Silvio Berlusconi  a questo suo sogno ci crede e ci lavora con quell’incredibile energia che è forse la sua migliore dote e che nessuno onestamente può negargli. Non per nulla in questi giorni, sia in prima persona sia attraverso i suoi uomini più fidati, sta facendo scouting, nel Gruppo Misto, tra i Grandi Elettori e ovunque ne veda una qualsiasi possibilità.

Personalmente sono diviso fra due opposte opzioni. La prima è che l’incubo “Berlusconi for President” non si avveri, per il bene dell’Italia. La seconda è che si avveri perché disveli al mondo intero, e in particolare all’Europa, che cos’è diventato realmente il nostro Paese.

 

Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2022

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In un solo anno Mario Draghi è riuscito a ingarbugliare la matassa dell’epidemia più di quanto avesse fatto Giuseppe Conte in due. Ma mentre Conte è stato il primo premier europeo a dover affrontare un fenomeno sconosciuto quale il Covid, Draghi aveva alle spalle due anni di esperienze e di ricerche di epidemiologi, di virologi, di immunologi, di Case farmaceutiche che, pur confuse e contraddittorie, qualche dato utile alla battaglia contro l’epidemia lo devono aver pur dato. Ugualmente non è riuscito a giovarsene.

Io credo che Mario Draghi non sia stato aiutato dall’ossequio, pressoché unanime, da cui è stato circondato dal momento in cui andò al Governo grazie a un irresponsabile colpo di mano di Matteo Renzi che fece cadere l’Esecutivo, per motivi rimasti ai più incomprensibili, in piena pandemia. Osannato da tutte le parti come “il salvatore della Patria” Draghi ha perso il senso della realtà e soprattutto dei propri limiti. Ha creduto di essere onnipotente e di avere sempre ragione. Non è la prima volta che capita in Italia, anche con personaggi ben più attrezzati di Draghi almeno politicamente (SuperMario non è un politico, è un banchiere che è mestiere del tutto diverso). Bettino Craxi a furia di circondarsi di yes man (“la corte dei nani e delle ballerine” come la chiamò Rino Formica) perse quell’intuito politico che era stata la sua forza ed è finito com’è finito chiudendo la sua carriera con personaggi come Giorgio Tradati e l’ex barista Maurizio Raggio, oltre che con una condanna alla reclusione di oltre 10 anni e la contumacia ad Hammamet. Per salire a piani ben più alti, Benito Mussolini, a furia di sentirsi dire che aveva sempre ragione, ha finito per crederci con i risultati che conosciamo. A Leandro Arpinati che gli faceva notare che un certo gerarca era un cretino, rispose: “Lo so, ma preferisco i cretini perché ubbidiscono”.

Mario Draghi non farà certo la fine né dell’uno né dell’altro. Ciò che intendo qui dire è che in politica, ma probabilmente anche in qualsiasi altra disciplina, l’ossequio, senza contraddittorio, è pericoloso per chi lo riceve oltre che per gli stessi cittadini quando vengono trattati da sudditi. E infatti adesso, dopo una serie di decreti che hanno il tono degli ordini perentori più che delle leggi, il mito di Mario Draghi comincia a scricchiolare. Sul Giornale, fino a ieri schierato con Draghi, Vittorio Macioce scrive: “E’ ormai chiaro che l’azione del suo governo è stata meno efficace per il gran ballo del Quirinale”. Ora noi non sappiamo se le ambizioni quirinalizie di Draghi c’entrino qualcosa, quel che conta è che lo stesso Giornale ammette che la sua azione di governo è stata poco efficiente. A Sky Tg24 Economia, fino a ieri totalmente appiattita su Draghi, alcuni ospiti, di varia estrazione politica, hanno cominciato a mettere in dubbio, sia pur timidamente, le azioni di Draghi anche dal punto di vista di quell’economia che dovrebbe essere il suo forte.

Ma ciò che più di tutto ha sconcertato i cittadini, sottoponendoli a uno stress non più sopportabile, sono i cinque decreti a seguire che il Governo, o per meglio dire la misteriosa “cabina di regia”, ha emanato fra dicembre e i primi di gennaio. Sono tutti contraddittori l’un con l’altro, ma soprattutto l’ultimo, quello del 5 gennaio, oltre a essere contraddittorio con i precedenti è così causidico, fatto di misure, di sottomisure, di sottosottomisure che, quand’anche avesse una sua logica, un cittadino di normale intelligenza non ci capisce più niente. È una sorta di delirio giuridico, totalmente scompaginato e in buona parte frutto di non dicibili compromessi fra le varie forze politiche che compongono questa squinternata maggioranza. Mario Draghi è finito in questo pantano,  la sua responsabilità maggiore non sta tanto e solo nel non essere stato in grado, alla lunga (ma in fondo è passato solo un anno) di fronteggiare l’emergenza ma di aver fatto credere, con grande sicumera, di poterlo fare. A furia di essersi sentito ripetere ossessivamente che era “l’uomo della Provvidenza” si è sentito tale. Ultimamente reagiva con dispetto e quasi con indignazione alle pur prudenti critiche che gli venivano avanzate da qualche ministro.

L’Italia non ha bisogno di nessun “uomo della Provvidenza”, tutte le esperienze in questo senso, se ci limitiamo alla contemporaneità, sono state fallimentari. Né vale rifarsi alla latinità con la figura del “dictator pro tempore” il cui più famoso esponente fu Quinto Fabio Massimo detto “il temporeggiatore”, che invece di affrontarle direttamente usurò con l’aiuto del tempo le truppe di Annibale. Perché oggi non è affatto il caso di “temporeggiare”, come  pare stia facendo il governo Draghi rimandando decisioni di mese in mese, ma di agire e subito. Altrimenti a logorarsi ulteriormente sarà solo la popolazione già usurata da due anni di stress, di stop and go, di indecisioni o, peggio, di decisioni immediatamente rimangiate.

Ciò di cui abbiamo bisogno è di tornare a un regime parlamentare democratico. E quindi ad elezioni il più presto possibile bypassando anche la snervante competizione per la Presidenza della Repubblica. Poi vinca il migliore o quantomeno colui che avrà il maggior consenso. E Draghi vada a fare il “nonno” a Città della Pieve, togliendoci d’attorno la sua ingombrante, inutile e, alla fine dannosa, presenza.

Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2022