“Oggi l’Africa Nera non è più pericolosa per l’Occidente di quanto lo sia un cimitero in putrefazione, che comunque una sua pericolosità la conserva perché c’è sempre il rischio che ci attacchi la cancrena”. Così scrivevo ne Il vizio oscuro dell’Occidente, del 2002, sono stato facile profeta, pensavo soprattutto alle emigrazioni che erano ancora un pallido fantasma di quello che è venuto dopo quando si sono trasformate in vere e proprie migrazioni bibliche. Pensavo anche alla crescita in Africa Nera di quell’Islam radicale che, insieme al colonialismo occidentale, quello classico e in seguito quello, ben più insidioso, economico, aveva contribuito a devastare quel mondo derubandolo, oltre a tutto il resto, della sua anima. L’Africa centrale non è riuscita a resistere né alla penetrazione, soprattutto economica, dell’Occidente, che ha stravolto, anzi azzerato, l’economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quei popoli avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, né a quella più ideologica dell’Islam. Perché i neri avevano culture belle e affascinanti ma leggere, cosmologie altrettanto belle e affascinanti, panteiste, animiste, e quindi estremamente tolleranti, ma proprio per questo fragili e inermi e l’Africa si è perciò lasciata affondare senza un gemito dal modello industriale occidentale e dall’ideologia islamista.
Per restare a noi occidentali abbiamo considerato, e continuiamo a considerare, l’Africa, riducendola alla fame, un enorme territorio da sfruttare, ma non abbiamo mai pensato che potesse costituire un pericolo. E invece un pericolo è arrivato, un pericolo immateriale e del tutto impensabile: si chiama Covid. Accanto alla globalizzazione economica, che ha fatto tanto comodo sia al pensiero e alla pratica capitalista che a quella, solo apparentemente, antagonista, esiste anche una globalizzazione della Natura che non guarda in faccia a nessuno. Oggi quindi l’Africa, suo malgrado, è diventata un pericolo, il cimitero rischia di contaminarci.
Poiché il terrore corre sul filo si è detto da molte organizzazioni, anche ufficiali, che è indispensabile immunizzare l’Africa entro il 2022 perché non ci contamini. È un autoinganno nei riguardi delle popolazioni europee, per tranquillizzarle, e anche per salvarci la coscienza nei confronti dei Paesi più poiveri, e un inganno nei confronti di quelle africane.
L’Africa conta un miliardo e 250 milioni di abitanti. Solo il Sudafrica (60 milioni circa di abitanti) e in parte i paesi del Maghreb, Algeria, Marocco, Tunisia (100 milioni di abitanti circa) sono attrezzati per una vaccinazione di massa. L’Africa Nera propriamente detta è percorsa da conflitti di ogni tipo, interetnici, interreligiosi, politici, in Congo, in Mozambico, in Somalia, in Sudan e nel sud del Sudan, in Nigeria, in Egitto, in Mali, in Burkina Faso, in Libia. Ve la immaginate voi un’organizzazione europea o mondiale, animata dalle migliori intenzioni, che vada in Libia o nel Sinai o in Somalia e dica a un Isis: “Per favore ci porga il braccio che stiamo facendo una campagna di vaccinazione”? Non basteranno due anni e nemmeno dieci e nemmeno trenta. L’Africa Nera, distrutta da noi e dagli islamici, si vendica, involontariamente, per interposto Covid. Quello che mi piace del Covid è che è in buona misura egalitario. Ricchi o poveri che si sia, come individui o come popoli, non risparmia nessuno. “A livella” come diceva Totò.
Il Fatto Quotidiano, 3 Dicembre 2021
Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai in spiaggia ho fatto il pagliaccio per mettermi in mostra agli occhi di lei che scherzava con tutti i ragazzi all'infuori di me. Perché, perché, perché, perché, io le piacevo. Lei mi amava, mi odiava, mi amava, mi odiava, era contro di me, io non ero ancora il suo ragazzo e già soffriva per me e per farmi ingelosire quella notte lungo il mare è venuta con te. Ora tu vieni a chiedere a me tua moglie dov'è. Dovevi immaginarti che un giorno o l'altro sarebbe andata via da te. L'hai sposata sapendo che lei, sapendo che lei moriva per me coi tuoi soldi hai comprato il suo corpo non certo il suo cuor. Lei mi amava, mi odiava, mi amava, mi odiava, era contro di me, io non ero ancora il suo ragazzo e già soffriva per me e per farmi ingelosire quella notte lungo il mare è venuta con te. Un giorno io vidi lei entrar nella mia stanza mi guardava, silenziosa, aspettava un sì da me. Dal letto io mi alzai e tutta la guardai sembrava un angelo. Mi stringeva sul suo corpo, mi donava la sua bocca, mi diceva sono tua ma di pietra io restai. Io la amavo, la odiavo, la amavo, la odiavo, ero contro di lei, se non ero stato il suo ragazzo era colpa di lei. E uno schiaffo all'improvviso le mollai sul suo bel viso. ( Storia d’amore, 1969, Adriano Celentano)
Da parecchio tempo durante la notte soffro di incubi. Sono incubi linguistici legati alla mia attività di giornalista connessa al sempre più stringente “politically correct” tutto proteso a difendere la figura femminile dalle discriminazioni maschili. Già introducendo questo articolo ( articolo? Perché non “articola”?) ho delle difficoltà. Perché “la notte”, che è il tempo del buio e della paura, è femminile, mentre il giorno, che è solare, va al maschile? Mi sembra uno sgarbo a tutto il genere femminile e anche, in un certo senso, agli ( altro maschile ) Lgbtq che ne sono esclusi. Ma il vero problema, quello che ha dato origine agli incubi, è la parola “angelo”. Angelo, almeno terminologicamente, ma non solo, è maschile, si parla di “angelo custode”, non ho mai sentito dire “angela custode”. In più l’Angelo complica le cose perché notoriamente non ha sesso. Si potrebbe risolvere la cosa troncando la parola in Angel, come Angel Di Maria, il formidabile trequartista, “el fideo”, del Paris Saint-Germain e della nazionale argentina. Ma qui subentrano altri problemi perché l’Argentina, l’Italia, la Francia sono al femminile e il Portogallo al maschile? Non sarà per caso un’altra discriminazione, questa volta in senso inverso?
Ma torniamo all’”angelo” che è all’inizio delle mie turbe. In verità tutto l’empireo giudaico-cristiano è coniugato al maschile. Ci sono i cherubini e i serafini, non le cherubine e le serafine. Se poi passiamo ai piani alti è ancor peggio. Dio, in quanto padre, è maschio. Suo figlio pure. Anche se su Cristo grava l’ombra di omosessualità ( peraltro accettata, anzi difesa, farebbe parte degli Lgbtq ) o quantomeno di misoginia ( il misogino è il più aborrito dalle donne, sempre che si possa usare ancora questo termine ) perché a 36 anni, questa è l’età in cui viene collocata la sua morte e non 33 come si è creduto fino a qualche tempo fa, non aveva ancora preso moglie e non gli si conoscevano rapporti sentimentali. C’è poi il terzo personaggio della Triade, lo Spirito Santo che Borges definisce “uno spettro”. Maschio sicuramente, perché feconda, sia pur con modalità misteriose di cui nessuno ha mai capito nulla, una donna, anche se poi ha la perfidia di attribuire il “fattaccio” all’incolpevole Giuseppe ( “subito Santo”, naturalmente ). Un’edizione arcaica de: “Gli uomini, che mascalzoni” di Mario Camerini del 1932.
Anche i protagonisti subalterni del mito giudaico-cristiano sono in genere uomini. Cristo resuscita Lazzaro e rende la vista a un cieco. La sola volta in cui si occupa di donne è quando lava i piedi alla Maddalena. Cosa senz’altro lodevole, ma che potrebbe far pensare che quello era un mondo popolato in prevalenza da prostitute.
Insomma tutto il lessico italiano dovrebbe essere riformato. Nella lingua inglese ci sono molti più neutri.
E poi c’è il repertorio delle canzoni, quasi tutte intollerabili a un sensibile orecchio moderno. Come quella che presentiamo all’inizio. Come si permette lui di darle un ceffone, anche se lei ha fatto del suo meglio per tirarlo scemo? “In galera subito e buttare via le chiavi” ( copyright Madama Santanchè ).
Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2021
Ha sbagliato Giuseppe Conte nell’essersi lasciato andare a escandescenze pubbliche, fino a impedire, o almeno cercare di impedire, la presenza dei rappresentanti grillini nelle trasmissioni Rai, perché i 5 Stelle non sono stati adeguatamente rappresentati come primo partito del Paese nella spartizione dei ruoli di quello che è, o dovrebbe essere, un Ente pubblico. Ha sbagliato perché, pur contestando questa spartizione partitocratica, e proprio perché l’ha contestata, Conte l’ha avallata. Se i grillini fossero stati adeguatamente rappresentati in Rai, secondo quella che è la loro attuale forza parlamentare, Giuseppe Conte non avrebbe probabilmente proferito verbo. E questo è in totale contrasto con l’originaria concezione dei 5 Stelle secondo la quale la Rai avrebbe dovuto essere sottratta all’occupazione, del tutto arbitraria, della Rai da parte dei partiti. Se c’è un renziano in più o un grillino in meno la sostanza non cambia. È la spartizione partitocratica della Rai ad essere del tutto illegittima e che non può essere accettata.
Intendiamoci, la presa dei partiti sulla Rai esiste da quando esiste la Rai. Alle origini la Rai era in mano a un solo partito, la Democrazia cristiana, che aveva ben capito il potere di questo mezzo che non le deriva dal fatto di “far vedere” ( anche un film “fa vedere”) ma dall’essere piazzata nelle nostre case. Non è possibile ignorarla. Il Pci, il grande antagonista di allora, aveva scelto una strada diversa, quella di portare dalla propria parte gli artisti e, in modo particolare, i registi ( tutto il “neorealismo” è fatto di questa pasta ). Agendo in un regime di monopolio commerciale, e che quindi non era sottoposto ai diktat di Auditel, la Rai di Ettore Bernabei poteva permettersi di offrire trasmissioni di alto e anche di altissimo livello. Prendiamo il “varietà” del sabato sera, l’intrattenimento popolare per definizione. Si chiamava Un, due, tre di Tognazzi e Vianello; Il mattatore di Gassman; Alta fedeltà ( testi di Chiosso e Zucconi ); Studio uno di Walter Chiari (1963), Lelio Luttazzi (1964), Ornella Vanoni (1966); Il signore di mezza età a cura di Camilla Cederna, Marcello Marchesi, Gianfranco Bettetini, presentato dallo stesso Marchesi con Lina Volonghi e Sandra Mondaini; L’amico del giaguaro, con Bramieri, la Del Frate e Raffaele Pisu; Scarpette rosa con Carla Fracci, Walter Chiari, Mina; Quelli della domenica con Paolo Villaggio ( testi di Marchesi e Costanzo ). Erano tutti spettacoli che si sostenevano su professionisti di ottimo livello che, per necessità, dovevano essere presi tutti dalle arti e dai mestieri, fosse pure il circo di Moira Orfei, perché quella prima televisione non poteva alimentarsi di se stessa, come invece avviene oggi dove basta una comparsata di un signor nessuno per farne un personaggio che poi ripresentandosi per “saecula et saeculorum” sul piccolo schermo ci ossessionerà per anni pur non avendo nulla da dire e da dirci. Inoltre quella Televisione bernabeiana cercò di unificare l’Italia dei dialetti ad un italiano di buon livello, c’erano addirittura venature “puriste” in quel linguaggio, tanto lontano dal basic-english-romanesco di oggi. C’era poi lo sceneggiato all’italiana ( Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po ) e la trasmissione dei grandi romanzi dell’Ottocento dai Fratelli Karamazov ai Demoni di Dostoevskij ( con la straordinaria interpretazione di Luigi Vannucchi nel ruolo del principe Stavrogin). Bernabei si permise di dare alle otto e mezza di sera, dove oggi dominano quiz demenziali in cui a una squiba viene chiesto di dire qual è l’infinito di “volo”, il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Ognuno lo interpretò secondo la propria sensibilità, la mia segretaria ( lavoravo allora in Pirelli ) lo prese come un noir e in fondo ci stava anche quello.
In quella televisione c’erano ‘pruderie’ comiche, la parola “uccello” era proibita e quando il finto ingenuo Mike disse: “Ahi, ahi, Signora Longari lei mi è caduta sull’uccello” suscitò un putiferio, che ancor oggi si ricorda, ma sempre in termini bonari, come più bonaria era la società di quegli anni.
Né io sono così ingenuo da non conoscere i rischi di totalitarismo che ci sono in ogni dirigismo. Resta il dato di fatto che quella era una televisione che avrei fatto vedere a mio figlio senza dovermene vergognare. Mentre quella di oggi non è immorale ( magari ) è semplicemente volgare.
Il patatrac accadde quando nel 1975, con un’apposita Legge, fu introdotto il cosiddetto “pluralismo” televisivo, cioè le tre Reti Rai, con i loro addentellati, dovevano essere assegnate ai partiti: la Rete Uno di regola alla Dc, la Due al Psi, la Tre alla sinistra. Dovendo competere fra loro per acquisire audience le tre Reti Rai, aggiogate a questo o a quel partito, cosa che nessuno nega nemmeno fra i protagonisti di allora che pur se la danno da indipendenti, dovettero abbassare il proprio livello culturale. L’avvento delle “commerciali” ha fatto il resto. Quello culturale non è un “prodotto” come gli altri. Se io ti do una mela buona tu la mangi, se te ne do una un po’ meno buona tu la mangi, se te ne do una ancora meno buona tu la mangi lo stesso, ma se tu mi dai una mela marcia io te la butto in faccia. Il “prodotto” culturale può invece abbassare all’infinito il suo contenuto per ottenere audience più ampie, abituando così a un livello infimo i suoi consumatori che chiederanno un prodotto ancora più basso. E questo è il punto cui siamo arrivati oggi dove alle otto e mezza invece di Bergman c’è una squiba che deve rispondere, per qualche centinaia di migliaia di Euro, alla fulminante domanda postale dal solerte conduttore: “Qual è l’infinito di volo”?
Come si esce da questo avvitamento? Non è poi così difficile se ci rifacciamo al modello britannico. In Gran Bretagna la Bbc, che è considerata una delle migliori televisioni al mondo, dipende dal governo inglese, perché anche il governo, rappresentando il Paese, ha il diritto e il dovere di dare, ‘latu sensu’, una sua impronta culturale. All’infuori della Bbc ci sono poi network privati che si battono tra loro per avere la maggior audience possibile, senza dover badare agli interessi pubblici e più in generale del Paese. Londra è a un’ora e mezza di volo. È davvero così difficile riprendere da quel modello, che tiene ben fermo l’interesse pubblico senza castrare quello, commerciale, dei privati? Parrebbe di sì se ora anche i 5 Stelle, che dovevano spazzare via la presa partitocratica dei partiti sulla Rai, fanno, attraverso le parole di Conte, il ponte isterico perché ritengono di non aver avuto in questa spartizione il posto che pensano, non per Legge ma per consuetudine, che loro gli spetti. In fondo Conte dando l’aria di contestare la spartizione pubblica della Rai l’ha, di fatto, e del tutto involontariamente, avallata.
Caro Massimo, magari la lottizzazione Rai fosse illegittima! Purtroppo è non solo legittima, ma addirittura imposta dalla legge (Gasparri, peggiorata da Renzi). Il M5S ha presentato una proposta di legge per riformarla nel senso della Bbc, senza però trovare i voti necessari in Parlamento. Nell'attesa, il governo lottizza in base alla legge vigente: ed è vergognoso che lo faccia con tutti i partiti, fuorchè col più rappresentato in Parlamento. (M.TRAV)
Il Fatto Quotidiano, 26 Novembre 2021