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E’ difficile capire perché la politica e i media che la rappresentano, o piuttosto ne sono agli ordini, si siano così incarogniti. Non siamo ad un passaggio storico decisivo in cui ci sia da scegliere se stare di qua o di la, col cosiddetto ‘mondo libero’  o con quello comunista ( anche se i “Grandi della Terra” avevano già deciso tutto a Yalta, ma noi non potevamo saperlo). In Europa il comunismo è morto e sepolto da tempo insieme alle ideologie che suscitavano forti passioni. Destra e sinistra sono poco più che dei nomi, ombre del passato e si fa fatica a coglierne le differenze, se non in qualche dettaglio. Siamo tutti atlantisti e per un “forte legame transatlantico” e poco ci importa, a quanto pare, che si sia occupati dagli americani che hanno sul nostro territorio sessanta basi militari, alcune nucleari.  Tutto ciò non ha impedito a Giorgia Meloni, strumentalizzando alcuni moti di piazza e le polemiche che ne sono seguite, di affermare che in Italia è in atto una “strategia della tensione”. Meloni è tra i tanti che pensano che il mondo cominci con loro. Non era ancora nata o era infante quando l’Italia è stata teatro per alcuni anni di gravissimi fatti di sangue di matrice politica: Piazza Fontana, strage di Piazza della Loggia a Brescia, bomba alla stazione di Bologna, aereo civile abbattuto sopra i cieli di Ustica. Se fosse strategia non è possibile dire, anche se molto probabile, perché il nostro Paese era allora territorio di confine tra i due Imperi. Comunque la “strategia della tensione” è un’altra cosa. Paragonare quei fatti con i moti neofascisti o no vax, roba di piccolo calibro, tanto che non c’è scappato nemmeno il morto, è un “parlar da stupid” per dirla con Jannacci, come da stupidi, o peggio, è strumentalizzarli nell’uno o nell’altro senso.

Sono andato a rileggermi l’Unità del dopoguerra. Nonostante si fosse all’indomani di un sanguinoso conflitto civile, l’accanimento contro i fascisti era meno violento di quello che c’è oggi e che ci costringe a dichiararci tutti integerrimi antifascisti pena la garrota pubblica. Ho ritrovato un carteggio tra Armando Cossutta allora giovane capofila dell’ ‘ala dura’ del Pci e mio padre, Benso Fini, che dirigeva il Corriere Lombardo, quotidiano liberale. Siamo nel 1953 alla vigilia delle elezioni politiche. Cossutta si duole che il Lombardo non abbia dato al Pci lo stesso spazio dato agli altri partiti. Fini risponde, giornale alla mano, che si sbaglia. Quel che colpisce in questo carteggio è il reciproco garbo. Quei due uomini, che se si fosse arrivati al momento del dunque si sarebbero scannati, si rivolgono l’un l’altro con grande civiltà. Questo è un momento privato ma vale anche, in larga misura, nella arengo pubblico. La polemica con i comunisti raramente andava oltre il bonario duetto “Don Camillo e Peppone” o il “Trinariciuti” affibbiato sempre da Guareschi ai comunisti. Insomma siamo poco oltre i ‘bauscia’ e i ‘casciavit’ fra tifosi interisti e milanisti. Dall’altro campo rispondeva, sull’Unità Fortebraccio coi suoi corsivi d’una ironia micidiale quanto sottile. La “Tribuna politica” condotta da Jader Jacobelli non era una rissa come nei talk di oggi. La stampa, a parte eventi eccezionali come lo “scandalo Montesi”, non andava a ficcare il naso nella vita privata degli uomini di potere. Il gossip politico, tanto in voga oggi per screditare l’uno o l’altro, non esisteva ( un titolo come “Patata bollente” allora non era nemmeno pensabile avrebbe screditato solo l’autore).  A loro volta  gli uomini politici avevano il buon senso e anche il buon gusto di essere riservati. Chi ha mai saputo qualcosa della moglie di Andreotti o dei suoi figli? Mogli e amanti, se le avevano,  restavano sullo sfondo, come le mogli della nomenklatura sovietica che comparivano solo ai funerali dei mariti in lise pelliccette di astrakan.

I giovani italiani sono inerti, gli adulti asintomatici, se esprimono un dissenso lo fanno nel più pacifico dei modi: disertando le urne. Ai ballottaggi non è andato a votare il 51% degli aventi diritto, un dato che dovrebbe far riflettere, come abbiamo già scritto, gli esponenti dei partiti invece di lacerarsi e logorarsi in sordide lotte intestine, dimenticando di fatto, aldilà delle belle parole, le esigenze dei cittadini.

Insomma siamo in una calma piatta, una bonaccia, che non giustifica in alcun modo le isterie della classe politica e della stampa che la asseconda.

Noi ci facciamo portare al macello perché questo modello di sviluppo finirà per portarci al macello, e questo è l’ autentico hard core dell’intera questione. Docili come pecore da tosare e ubbidienti come asini, senza emettere nemmeno un belato o un raglio.

Può darsi che nella popolazione covi, sottotraccia, una sorda rabbia e una voglia di ribellione e anche di violenza. Ma per ora ci limitiamo a scaricarle nel virtuale come ci dicono le infinite serie basate sulla criminality che hanno un grande seguito. Siamo solo degli spettatori della nostra esistenza.

Il Fatto Quotidiano, 21 Ottobre 2021

"Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente" ( Io non mi sento italiano, Giorgio Gaber )

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Per Sartre la vita imita il calcio, per Givone il calcio la spiega. Fra questa dicotomia, solo apparentemente tale, oscilla il libro di Alessandro Gnocchi Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell’anno. Perché se è vero che Sartre, nel suo razionalismo, ha ragione, è altrettanto vero, come dice Givone, che il calcio è un fertilissimo campo, è il caso di dirlo, di metafore della vita (la principale e più nota è la guerra) che dà innumerevoli spunti di riflessione in ambito politico, sociale, sociologico, letterario. E dei rapporti fra calcio e letteratura si occupa appunto Gnocchi. Un libro godibilissimo perché Gnocchi, capo dei servizi culturali de Il Giornale, affronta questo tema, in realtà assai profondo, rinunciando a ogni leziosità colta in favore di uno stile piano, sciolto, digeribile da tutti. In realtà Gnocchi possiede, o per meglio dire è posseduto, da una doppia anima: quella del letterato e quella del tifoso “la mattina in biblioteca, la sera a vedere la partita, la giornata perfetta” dice, mi pare, in un passaggio. Prima di entrare in medias res, nel primo capitolo intitolato giustamente Riscaldamento Gnocchi ci offre una serie di curiosità ignote anche ai più appassionati calciofili. Parla cioè dei letterati, dei filosofi, dei poeti, dei narratori che oltre a parlare di calcio lo hanno praticato. Di Pasolini lo sapevamo tutti. Come era intuibile che Albert Camus, con quel suo bel fisico da pied-noir algerino, tanto diverso dallo stortignaccolo Sartre, fosse un buon portiere. Ma chi avrebbe mai immaginato che l’austero e solitario Heidegger, terrore di ogni studente di filosofia quando deve affrontare La questione della tecnica o le riflessioni su Nietzsche dove riesce, impresa quasi impossibile, ad andare oltre il pensiero del filosofo di  Röcken , avendo imparato dallo stesso Nietzsche che “non fa onore al suo maestro chi rimane sempre allievo” e che negli ultimi anni della sua vita si era rifugiato su una montagna quasi irraggiungibile da cui aveva fatto ruzzolare, con disgusto, Sartre, che si pretendeva suo allievo, fosse stato in gioventù “un’ala sinistra mica male”? Che il pesantissimo Derrida, altro interprete, però mal riuscito, di Nietzsche, fosse stato un “valido centravanti” e che Benedetto Croce fosse in gioventù “una promessa del calcio”? Quest’ultima probabilmente è un’invenzione di Antonio Pennacchi. Ma in fondo anche questa è letteratura. Sulla letteratura.

Ma veniamo al sodo. “Saba ha scritto le cinque poesie italiane più note sul calcio: Squadra paesana, Tre momenti, Tredicesima partita, Fanciulli allo stadio e Goal. Quest’ultima descrive le reazioni delle squadre a una rete segnata . Tutto è vissuto attraverso i sentimenti dei portieri. Quello battuto è inutilmente consolato dai compagni. Quello inviolato festeggia da lontano. È una poesia sulla solitudine. Del portiere, di Saba, degli uomini in generale”. Motivo ripreso, non per il portiere ma per la squadra, da Max Pezzali in “La dura legge del gol”.  Il mito vuole che Wittgenstein “ebbe un’illuminazione davanti a una partita di calcio a Cambridge. Anche il linguaggio era un gioco. Era nata la teoria cardine di Wittgenstein: il gioco linguistico”. Non è una fumisteria filosofica: il calcio è un linguaggio, la partita un racconto. Un racconto che si dipana in 90 minuti (oggi molto di più con le cinque insopportabili sostituzioni) e dove ogni gesto, anche il pallone calciato sfacciatamente in tribuna, ha un senso, un senso poetico.

Su molte cose Gnocchi ed io siamo d’accordo. Il vero calcio non è quello televisivo. Caduti i vecchi riti il calcio è l’ultimo luogo riservato al sacro. E come ogni manifestazione sacrale vuole una concentrazione assoluta. Ecco perché non si può andare a vedere una partita con una donna. Non puoi vedere una partita allo stadio, che è come una chiesa, e allo stesso tempo sbaciucchiarti.

Tutto ciò che abbiamo detto finora vale per il calcio d’antan, non per quello di oggi. E credo che Gnocchi, anche se non lo dice esplicitamente, possa essere d’accordo. Del resto non si può essere tifosi quasi maniacali della Cremonese, cioè di una squadra minore, senza amare il calcio romantico di una volta oggi invaso da Televisione, Economia, Tecnologia.

Innanzitutto oggi sul calcio giocato prevale il calcio raccontato e con un’enfasi sconosciuta fino a non molto tempo fa. Bruno Pizzul è stato il telecronista della Nazionale italiana per più di quindici anni dal 1986 al 2002. Riusciva a rendere il patos della partita, tenendo ovviamente per la nostra Nazionale, ma senza lo sbraco dei telecronisti d’oggi. Ogni goal, parata sono straordinari, meravigliosi, unici (contraddizioni in termini) invece son cose che, salvo qualche rara eccezione, abbiamo visto mille volte. Insopportabile è poi il VAR. Tu fai un goal e non puoi nemmeno esultare, devi aspettare cinque minuti. Decide il VAR. L’arbitro è ridotto a un passa carte, un impiegato della tecnologia. Non è un più il dio in campo come una volta (“Rigore è quando arbitro fischia”, Boškov).

Il calcio, proprio perché appartiene al sacro, è tradizione. E qui Gnocchi introduce Leopardi. Secondo Leopardi il poeta deve conoscere a fondo i cardini di quello che, usando un termine molto riduttivo, potremmo definire il suo mestiere, ma deve anche avere la capacità di superarli e andare oltre (Calci di rigore: la libertà del calcio). È il pensiero anche di Carmelo Bene. Ma oggi in circolazione non ci sono né Carmelo Bene né tantomeno Giacomo Leopardi. Io sto quindi con gli ultras, gli infamati ultras che qualche anno fa, in rappresentanza di 72 società, organizzarono in una giornata di giugno, canicolare e patibolare, una civile e composta manifestazione davanti al grattacielo della FIGC di Milano al grido di: “ridateci il calcio di una volta”.

Il Fatto Quotidiano, 19 Ottobre 2021

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Gli occidentali non ce la fanno proprio a non essere  “umanitari”. Sono proprio commoventi in questa loro missione. Erano andati in Afghanistan vent’anni fa per sconfiggere il terrorismo. Ci hanno messo anni per capire quello che sapevano già: che la dirigenza talebana dell’epoca era completamente all’oscuro dell’attacco alle Torri gemelle e che non aveva niente a che fare col terrorismo internazionale allora impersonato da Bin Laden e che prendeva il nome di Al Qaeda. Lo sapevano talmente bene che già nell’inverno del 1998 Bill Clinton aveva preso contatti con il Mullah Omar per far fuori Bin Laden e Omar si era dichiarato disponibile. Ma Clinton, all’ultimo momento, si tirò indietro per ragioni rimaste misteriose. E questi sono documenti del Dipartimento di Stato resi noti nell’agosto del 2005. 

Poiché il terrorismo internazionale non aveva niente a che fare con i Talebani la missione occidentale, che non faceva più capo all’Onu, cambiò nome e si chiamò “Riportare la speranza” in Afghanistan. Che cosa abbiano fatto per  vent’anni  gli occidentali in Afghanistan non è facile capire. Ancora oggi tra le lagnose lamentele sulla “disastrosa situazione in Afghanistan” – e lo credo bene dopo vent’anni di guerra - c’è che mancano gli ospedali. Cioè in vent’anni non siamo stati nemmeno capaci  di costruire degli ospedali, rimane solo Emergency che era in Afghanistan, a Kabul e a Lashkargah, già all’epoca in cui governava il Mullah Omar. Siamo stati invece abilissimi nel sommergere quella gente con fiumi di dollari per corromperla. Operazione in parte riuscita, molti di quelli che oggi scappano dall’Afghanistan sono persone che hanno intascato i soldi che dovevano andare al popolo afghano. A cominciare dall’ultimo Presidente Ashraf Ghani, al suo ancor più impresentabile predecessore Hamid Karzai, il cui fratello era uno dei più grandi trafficanti di oppio, giù giù fino ai governatori provinciali, alla polizia, alla magistratura. La magistratura era talmente corrotta che si pagava per avere una sentenza favorevole tanto che, soprattutto nella vastissima area rurale ( circa il 90% del Paese )  gli afghani preferivano ricorrere alla giustizia talebana, più sbrigativa ma non corrotta, come ha documentato Ahmed Rashid in Caos Asia. I talebani sono stati fin troppo accomodanti emanando quasi immediatamente un’amnistia per questi mascalzoni. 

Poiché non sono riusciti a sconfiggere l’Afghanistan talebano sul campo gli occidentali cercano ora di riappropriarsene manovrando la leva ricattatoria degli “aiuti umanitari”.

Al G20 straordinario per l’Afghanistan il Presidente italiano Mario Draghi ha dichiarato: “L’impressione è che i talebani e l’Isis non siano amici”. O bella, ma che bravo, che intuizione formidabile, la scoperta dell’acqua calda. 

La posizione più intelligente l’hanno presa i Paesi che di fatto a questa buffonata del G20 non hanno partecipato, Russia e Cina: richiamandosi al principio della autodeterminazione dei popoli e quindi all’illegittimità “dell’interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano” e proponendo la restituzione a Kabul delle riserve finanziarie detenute nelle Banche Usa e in Gran Bretagna. Una appropriazione, questa, del tutto indebita perché non è sufficiente che uno Stato cambi il proprio Governo per rendere legittimo il sequestro delle sue riserve auree. E’ a questo sequestro, e non al governo talebano, che vanno attribuite molte delle difficoltà in cui si trova oggi l’Afghanistan.

Naturalmente gli occidentali, sempre più ”umanitari”, condizionano i loro interventi finanziari ponendo delle condizioni: sui diritti civili, sui diritti delle donne allo studio e al lavoro e così via. Si scrive che attualmente le donne possono frequentare solo le elementari. In un’intervista rilasciata al Corriere il portavoce dei Talebani e capo della Commissione culturale Zabihullah Mujahed ha assicurato che questi diritti verranno garantiti e che al più presto le scuole superiori e le Università saranno aperte a tutti, secondo programmi uguali per tutti, uomini e donne. Ma che bisogna lasciar loro un po’ di tempo.  Naturalmente tutto ciò all’interno dell’interpretazione hanafita, che è la loro, della Sharia. “A queste tradizioni millenarie non intendiamo rinunciare” ha aggiunto. Non si può pretendere che i talebani abbandonino la propria cultura e le proprie tradizioni. Non hanno combattuto vent’anni per questo. Non si può chieder loro di adottare una costituzione liberale di tipo occidentale.  Non hanno combattuto vent’anni per trovarsi di nuovo sul collo la “cultura superiore”. Ricadiamo qui, ancora una volta, nel “vizio oscuro dell’occidente” di voler imporre la propria cultura, le proprie istituzioni, la propria democrazia all’universo mondo, si chiami Afghanistan o Libia o Venezuela. Tutto ciò senza sapere né capire nulla delle culture di quei Paesi. Che ne sa l’Onorevole Draghi, un banchiere che non è mai stato in Afghanistan, che lo conosce solo dalle carte geografiche, delle tradizioni, dei costumi, delle usanze di quel Paese? Che ne sanno i vari Capi di Stato che hanno partecipato al G20 straordinario?

Qualche anno fa un giornalista Rai intervistò il Comandante delle forze sovietiche che avevano occupato a suo tempo l’Afghanistan e gli chiese: “Che cosa dobbiamo e possiamo fare per salvare l’Afghanistan?” rispose: “bisogna lasciare che gli afghani si salvino da soli”. Cioè bisogna lasciare che ogni popolo si evolva, o anche non si evolva, secondo la propria volontà, le proprie tradizioni, la propria storia. 

C’è stato bisogno di un Comandante sovietico perché ci desse una lezione di democrazia internazionale.

Il Fatto Quotidiano, 16 Ottobre 2021