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A Roma, come ha riferito Federico Pontiggia sul Fatto (25.2) una cinquantina di sale cinematografiche rischiano la chiusura. I motivi? I soliti: le sale cinematografiche non rendono e quindi è molto più conveniente mettere al loro posto dei supermercati, dei centri commerciali, degli hotel di lusso, insomma la solita baraonda. La situazione è considerata così grave che quattro importanti cineasti americani, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Wes Anderson, Ari Aster e la neozelandese Jane Campion (Un angelo alla mia tavola, Lezioni di piano) hanno sentito il dovere di rivolgere un appello al nostro Presidente della Repubblica. Questa situazione, dicono in sostanza i cineasti, è “un profondo sacrilegio non solo per la ricca storia della città, ma anche per il patrimonio culturale”. Che gli artisti stranieri si siano mobilitati a favore dei cinema romani è comprensibile (molto meno lo è il silenzio di quelli italiani) perché Roma è da sempre, in Italia, la capitale del cinema (Milano lo è semmai del teatro, Strehler e Ronconi docent) e a Cinecittà sono tuttora disponibili gli scenari e i costumi di tanti grandi film.

Se Roma piange, Milano non ride. Si è passati dai 160 cinema degli anni Sessanta ai 29 attuali. Se la crisi del teatro ha importanti conseguenze culturali, quella del cinema ne ha anche, forse più gravi, sociali.

Negli anni pre-boom c’erano a Milano cinema di prima visione, tutti collocati in centro, cinema di seconda visione e cine di terza nelle periferie. Per vedere un buon film non era necessario andare al cinema d’essai per eccellenza, il mitico Orchidea in via Terraggio, bastava guardare con attenzione la programmazione dei cine di terza visione. I giornali dedicavano una pagina con l’elenco di tutte le sale, dall’Ambasciatori allo Zenit. Questi davano il poliziesco, il western, l’americanata ma nella settimana c’era almeno un bel film o anche un grande film. Io ho visto la Dolce vita, di nascosto perché era vietato ai minori di diciotto anni e io ne avevo sedici, al cine del Giambellino, il Giambellino del Cerruti Gino della canzone di Gaber. Quindi era un continuo spostarsi dal proprio quartiere ad un altro, si conoscevano zone fino allora non perlustrate, ambienti non conosciuti e nei bar intorno si facevano incontri, e a volte anche amicizie, con sconosciuti.

Il cine di terza era poi il rifugio delle coppie in amore. Siamo nel pre-boom e certamente i ragazzi non avevano i soldi per comprarsi un auto. Gaber canta:

Un cinemino, forse, fatto apposta
Due film in una volta, cento lire
Ci siamo andati insieme ad ogni festa
Seduti in fondo, là senza guardare
” (Porta Romana, 1972).

Per chi aveva ambizioni che andavano al di là del semplice petting c’era l’altrettanto mitico teatro Carcano, nato nel 1803, uno spazio molto ampio (circa mille posti a sedere) dove si poteva fare, furtivamente, con opportuni accorgimenti, il sesso in piedi, “al Carcano in p” secondo una nota canzone di Jannacci (Veronica, 1964). Se si ascolta la canzone dal vivo si sentono i gridolini finto scandalizzati delle ragazze.

Siccome i posti in piedi costavano più o meno la metà di quelli seduti, noi ragazzi stavamo nel pigia pigia di quelli in piedi e qui si svolgevano altre manovre. Un adulto, da dietro, ti appoggiava il cazzo duro sul culo. Una volta, infastidito, mi voltai e vidi Giovanni Testori, lo scrittore. Un’altra Arbasino. Con Arbasino, io e i miei due compagni, facemmo lega. Usciti dal cine ci offrì centomila lire, tanto per quegli anni, se ci lasciavamo fare un pompino. Insomma per incontrare tipi interessanti non era necessario andare al GIamaica o da Oreste in Piazza Mirabello dove incontrai Umberto Eco, tutto fuorché omosessuale, che mi regalò e autografo quello che secondo me è il suo libro migliore, Fenomenologia di Mike Bongiorno molto migliore, secondo il mio personalissimo cartellino, dei successivi che hanno avuto un enorme successo, Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault dove traffica, e molto arbitrariamente, col Medioevo. C’è da aggiungere un dettaglio, che forse dettaglio non è: al cine si poteva fumare. I popcorn, già segno di una decadenza irreversibile, sono arrivati dopo. Humphrey Bogart in Casablanca con la perenne sigaretta di sbieco in bocca era un mito, come lo era stato, per le generazioni che ci avevano preceduto, lo James Dean con una bottiglia di coca cola appoggiata alla tempia.

Eravamo giovani, eravamo belli, eravamo ingenui e attiravamo adulti di ogni sponda.

Parlando di Jannacci e di Gaber mi rendo conto che pur essendo cantori universali “basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare” è una filosofia più che una canzone (1959), quando parlano di Milano parlano di una città, oltre che di un’Italia obsoleta, che ai loro tempi non esisteva già più. Mi ricordo che a un Costanzo show battibeccai con Jannacci, che era un uomo puntuto, sulla canzone Ti te se no che dice a un certo punto “Che bel ch’el ga de vèss èss sciuri, cunt la radio noeuva e, nell’armadio…”. Gli dissi: “Enzo, guarda che oggi tutti hanno la televisione”.

E’ da anni, molti anni, che vedo avanzare questa Milano sempre più moderna, sempre più modernizzante e assisto allo scempio. Impotente.

 

1° marzo 2025, il Fatto Quotidiano

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In un articolo per il Corriere della Sera intitolato “Lo ‘spaccone’ e le parole che tornano (17.2) Paolo Di Stefano, giornalista ma soprattutto fine linguista, si scusa per essere costretto ad usare dei termini esclusivamente al maschile tanta è la preoccupazione di non urtare la sensibilità del “gentil sesso”, che oggi tanto gentile non è più.

Io non vedo di che cosa si possano lamentare le donne almeno quando si parla di raggiungere ruoli apicali: il Presidente del Consiglio italiano è una donna, Giorgia Meloni, il leader dell’opposizione è una donna, Elly Schlein, il Presidente della Commissione europea è una donna, Ursula von der Layen, il Presidente del Parlamento europeo è una donna, Roberta Metsola, a capo della Bce, ruolo fondamentale, c’è una donna, Christine Lagarde.

Certamente ciò non significa che nella vita comune non esistano discriminazioni a sfavore delle donne: nelle assunzioni un imprenditore, soprattutto un piccolo imprenditore, ci pensa due volte prima di ingaggiare una donna perché potrebbe rimanere incinta, e per lo stesso motivo, a parità di ruolo e di capacità, una donna prende in genere un salario inferiore a quello di un uomo. E’ dell’altro giorno il rapporto dell’Inps che documenta il gap fra i salari degli uomini e delle donne addirittura del venti per cento.

Però nelle relazioni sessuali è l’uomo ad essere in difficoltà per la semplice ragione che, per ragioni antropologiche poi diventate culturali, in un processo che sarebbe troppo complicato spiegare qui, è dalla parte della domanda (nel linguaggio popolare ci si chiede normalmente “la dà o non la dà?” e non “lo dà?”).

Il “MeToo”, partito da ragioni ragionevoli soprattutto nel mondo aziendale, perché molto spesso il capo abusa delle dipendenti utilizzando la sua posizione (molto meno nel mondo dello spettacolo dove mi lascia perplesso che un’attrice o una ballerina dopo aver ottenuto il ruolo dal regista lo accusi di “molestie sessuali” avvenute magari trent’anni prima e spesso si tratta di parola contro parola) ha ulteriormente complicato il già complicato rapporto fra i due sessi (ma sono ancora solo due?). Lo vedo anche nella mia storia personale e nella stessa difficoltà che ho, come Paolo Di Stefano, nel scrivere questo articolo cercando di non urtare la sensibilità femminile, impiegando quindi molta prudenza nell’usare il maschile e il femminile. Fino a non moltissimi anni fa ricevevo a casa i lettori, uomini e anche ragazze, sia pur in misura minore, che chiedevano di incontrarmi. Oggi se sono uomini, direi ragazzi perché in genere si tratta di giovani, continuo a riceverli a casa, se sono ragazze le porto al bar di sotto perché basta che lei dica “ci ha provato” e, parola contro parola, sei spacciato, una macchia di maniaco sessuale non te la leva più nessuno e ha riflessi sulla tua carriera professionale.

Recentemente Luis Rubiales, ex Presidente della Federcalcio spagnola, è stato condannato (“aggressione sessuale”) per aver baciato, nell’entusiasmo di una vittoria, una calciatrice. Eppure nel calcio maschile i giocatori si abbracciano e si baciano dopo una vittoria senza che nessuno abbia qualcosa da ridire accusandoli, poniamo, di omosessualità.

Il “MeToo” ha aperto un vaso di Pandora soprattutto nel mondo dello spettacolo e dello star-system. Si cominciò nel 2018 con Daniele Gatti, che era direttore d’orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, e venne rimosso perché accusato di “comportamenti inappropriati” da due soprano. Mi piacerebbe sapere quando un comportamento è considerato “inappropriato”. All’alba di una possibile relazione sentimentale è l’uomo proprio perché sta, come ho detto, dalla parte della domanda, a dover fare una avance, che so, una carezza sui capelli o una mano sulla spalla, per farle capire che ti piace.

In Oriente nel mondo tantrico lui si stende una prima volta per quindici giorni alla sinistra del letto su cui lei è distesa, una seconda volta, sempre per quindici giorni, a destra. E quando la scopa? Mai. Perché prima arriva qualcuno un po’ meno tantrico.

Il maschio, a meno che non sia un bruto, e in questo caso va sanzionato con la massima severità, è timido, cosa che non so quanto sia capita e apprezzata dalla ragazze. Quante occasioni perdute per questa timidezza.

Io dedico questa canzone

Ad ogni donna pensata come amore

 In un attimo di libertà

 A quella conosciuta appena

 Non c’era tempo e valeva la pena

 Di perderci un secolo in più

 A quella quasi da immaginare

 Tanto di fretta l’hai vista passare…

 E ti piace ricordarne il sorriso

 Che non ti ha dato e che tu le hai deciso…

 Alla compagna di viaggio

 I suoi occhi il più bel paesaggio

 Fan sembrare più corto il cammino

 E magari sei l’unico a capirla

 E la fai scendere senza seguirla” (Le passanti, 1974, De André).

Poi sono venuti i casi di Depardieu, Spacey, Mbappè (tre gol al City in Champions), di Vin Diesel, degli Alpini al loro raduno nazionale, della interminabile “lista Epstein” che ha coinvolto il Principe Andrea, caduto in disgrazia presso la Famiglia Reale con l’accusa di aver abusato di una ragazza minorenne nella dimora di Epstein, di David Copperfield, di Michael Jackson, dell’agente francese di modelle Jean-Luc Brunel… Casi diversissimi finiti nello stesso mazzo. Come se ne esce? Mai!

 

26 febbraio 2025, il Fatto Quotidiano

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Fra Sudan del Nord, tendenzialmente islamico, e il Sudan del Sud, tendenzialmente animista, è in atto una feroce guerra che in soli due anni ha provocato 150 mila vittime. Poiché le popolazioni delle regioni che noi oggi chiamiamo Sudan e Sud Sudan erano state per decenni pacifiche, ci si chiede come questo sia potuto succedere.

C’è da premettere che tutta la storia dell’Africa Nera, composta da migliaia di etnie, è stata sostanzialmente pacifica. Scrive l’antropologo John Reader (Africa. Biografia di un continente, 1997) a proposito del delta del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici il delta interno del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche”. Ma quello che Reader attribuisce al delta del Niger vale, in linea di massima, per tutta l’Africa Nera. I neri africani sono stati abilissimi nell’innocuizzare la violenza senza togliere all’uomo l’aggressività che è una componente essenziale della vitalità: con la guerra finta chiamata rotana per evitare la guerra autentica, la diembi togliendo le alette alle frecce che così andavano a casaccio, con la festa orgiastica.

Negli anni Settanta fui presente a Nairobi a una conferenza sulla guerra cui partecipavano quasi tutte le etnie africane. Ad un certo punto intervenne il leader di una tribù che disse: “Anche da noi qualche anno fa c’è stata una guerra, una guerra veramente tremenda ma a un certo punto, intorno ad un pozzo ci scappò il morto e finì subito tutto”.

Come è possibile che, con queste premesse, si sia arrivati oggi alla guerra sanguinosa che dilania il Sudan? Tutto ebbe inizio con un progetto umanitario inglese, chiamato Azande scheme. Non un progetto di rapina come oggi i vari “Piani Mattei”. Tra l’altro a guidare l’Azande scheme fu messo un funzionario onestissimo. L’Azande scheme prevedeva una migliore razionalizzazione dell’agricoltura degli Azande e sessantamila casali furono abbattuti e ricostruiti in modo più razionale sul territorio, maggiormente distanziati gli uni dagli altri per rendere economicamente più produttiva la coltivazione del cotone che peraltro gli Azande non avevano mai coltivato. Ma non fu la storia del cotone a mandare all’aria il progetto, ma una componente della cultura azande di cui gli inglesi non tennero conto: la credenza nella stregoneria.  Il distanziamento dei casali ostacolava la funzione della stregoneria che nel concetto degli Azande poteva essere esercitata solo a una distanza ravvicinata. Tutto ciò irritò profondamente la popolazione Azande che si mise in urto con gli Avongara, l’aristocrazia Azande, che fino ad allora non aveva mai avuto difficoltà a governare gli Azande ritenuti comunemente “docili, adattabili e soprattutto obbedienti ai loro nativi sovrani” (Evans-Pritchard, un antropologo che visse trent’anni fra gli Azande). La colpa degli Avongara, agli occhi della popolazione Azande, era di aver aderito al progetto inglese. La stregoneria fra gli Azande aveva tre funzioni: psicologica, sociale, politica. Funzione psicologica: quando a un azande capita una disgrazia può sempre attribuirla a qualcuno, uno stregone appunto, e scaricare la rabbia su di lui. Funzione sociale: ad essere accusati di stregoneria sono i vicini, dato che la stregoneria ha un raggio d’azione limitato, quelli con cui c’è stata una qualche ruggine e poiché a nessuno piace farsi la fama di “stregone” ciò fa sì che tutti, in linea di massima, cerchino di comportarsi con i propri vicini nel modo più cortese, affabile e amichevole possibile. Funzione politica: fra gli Azande, come in ogni comunità umana, si possono creare tensioni, rivalità politiche fra gruppi, lotte sotterranee per il potere. Ciò accade quando, a causa dell’aumento della popolazione, un villaggio comincia a perdere la propria autosufficienza alimentare e chi ha l’autorità non riesce più a gestire il conflitto. Ma poiché, come spiega Eva Gilles nella sua introduzione al libro di Pritchard (Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande)  “spesso nelle società preindustriali le tradizionali norme etiche inibiscono il riconoscimento esplicito di tali rivalità”, i due gruppi in lotta cominciano a scambiarsi reciproche accuse di stregoneria finché, al culmine della tensione, una parte del villaggio se ne stacca e va a vivere altrove, ripristinando l’equilibrio demografico e alimentare senza scontri e senza spargimenti di sangue. E’ ciò che è accaduto, per esempio, nella società Nuer, una “comunità acefala” cioè senza capi non rara in Africa Nera dove tutti gli uomini nascono uguali e restano uguali, senza distinzioni di nascita o di ricchezza, ma basata sulla violenza. Cioè se tu osi offendere non dico un Nuer, ma la sua vacca, un colpo di zagaglia te lo prendi di sicuro. I Nuer erano riusciti a coniugare libertà individuale e uguaglianza, cioè il mito, mai raggiunto, su cui si sono affannate le democrazie moderne, sia in salsa liberale che marxista. Cioè la caratteristica di queste società è la possibilità dell’uso della violenza oggi monopolizzata dallo Stato.

Oserei dire che noi moderni abbiamo perso la sapienza sapienzale, e soprattutto l’istinto, delle generazioni che ci hanno preceduto affidandoci sempre di più alla Tecnica. Faccio un paio di esempi. Quando furono abbattute le Torri gemelle quelli che erano sopra la linea degli aerei erano spacciati, ma coloro che erano sotto avevano la possibilità di salvarsi. Gli altoparlanti urlavano “state fermi, state calmi, adesso arrivano i pompieri”, cioè la Tecnica. C’era un cieco che aveva un cane che senza saper né leggere né scrivere né tantomeno ascoltare, fece la cosa più istintiva: si precipitò giù dalle scale per arrivare il più in fretta possibile al suolo. Il cane si salvò, il cieco pure. Faccio un altro esempio che parte dallo Tsunami del 2004 che investì l’intero Oceano Indiano con 230 mila morti. Le Isole Andamàne erano proprio nell’epicentro del maremoto. Le Andamàne sono divise in due: una parte civilizzata, una non ancora. Nella parte civilizzata si ebbero migliaia di morti non solo fra gli stranieri che erano lì in vacanza ma anche fra gli indigeni. Li avevamo talmente ibridati che non capirono quello che per la verità capì una bimba inglese di dieci anni: che se il mare si ritira non per una marea conosciuta è inevitabile un’onda di ritorno. Gli abitanti delle Andamàne non civilizzate non ebbero né un morto né un ferito. Intanto perché non costruiscono in riva al mare ad uso dei turisti ma soprattutto perché guardando il mare, al momento calmissimo, l’istinto gli diceva che qualcosa non andava. Come lo avevano capito gli animali. Il fenomeno fu osservato dal guardiano di un faro, collocato a Sumatra, per sua fortuna sufficientemente alto: ad un certo punto tutti gli animali si misero a correre verso la collina, gli uccelli smisero di cinguettare. Lui guardò il mare e non capiva: in quel momento era calmissimo. Evidentemente gli animali, e con loro gli indigeni, avevano sentito per istinto che c’era qualcosa che non andava.

Ma questo fa parte di un altro capitolo. Torniamo agli Azande. Fu per un progetto umanitario che gli Azande, e con essi la loro cultura, sono stati distrutti. Le vie dell’inferno, come si dice, sono lastricate di buone intenzioni.

 

22 febbraio 2025, il Fatto Quotidiano