Quando si parla dei più importanti protagonisti di quell’’arte minore’ che è il giornalismo, che furono attivi in tempi relativamente recenti si ricorda spesso Indro Montanelli. Proprio sul Fatto nei giorni scorsi Nanni Delbecchi, la “firma” forse più fine e montanelliana del nostro giornale, ha fatto un gustoso ritratto del “fucecchiese di Su”. Si ricorda molto, anche troppo, Oriana Fallaci. Si ricorda molto meno Enzo Biagi. Giorgio Bocca sembra essere invece scomparso.
In giornalismo ho avuto solo due amici, Giorgio Bocca e Walter Tobagi. Ma quest’ultimo a soli 33 anni è stato assassinato da due ragazzi male educati.
Nei primi anni Ottanta Umberto Brunetti, direttore di Prima Comunicazione inaugurò una rubrica che aveva titolato “Dialoghi sull’informazione” e l’aveva affidata a Bocca che era allora, con Montanelli e Biagi, uno di principi del giornalismo italiano. Ma occorreva uno sparring partner. Avevo conosciuto Bocca quando lavorai per un breve tempo nella redazione milanese di Repubblica e fra di noi, nonostante il quarto di secolo che ci separava, era nata un’istintiva simpatia. Così lui indicò me.
Arrivavo la mattina presto a casa di Bocca, in via Bagutta 12, e lo trovavo spesso tutto indaffarato a incollare dei ritagli pescati chissà dove. “Che fai Giorgio?”. “Una voce per un’enciclopedia”. “Hai tempo da perdere con queste cose?”. “Ma, sai, mi danno centomila lire” e calcava la voce sul “centomila”. Quella cifra non era granché soprattutto per uno che prendeva uno stipendio da Repubblica e un altro dall’Espresso. Nel frattempo i Dialoghi erano diventati anche una formula radiofonica. L’aveva ripresa Cariaggi peraltro più noto per essere il marito di Lara Saint Paul, in una di quelle piccole radio che allora stavano nascendo come funghi.
Quando uscivamo dagli studi della Rai Bocca si infilava in una misteriosa porticina azzurra, io dovevo attenderlo fuori. Usciva dopo cinque minuti, risaliva in macchina e lo riportavo a casa. Un pomeriggio, mentre guidavo, non resistendo alla curiosità gli chiesi: “che ci vai a fare in quel bugigattolo?”. “Prendo i soldi subito, cash, di quella gente non c’è mai da fidarsi”. Una sera ero a cena a casa sua. Giorgio sedeva a capotavola, io alla sua destra. Uno dei suoi figli si era sposato da poco, avvicinò il suo viso al mio e parlando a mezza bocca per non farsi sentire dalla moglie, Silvia Giacomoni, mi disse: “sai, questo matrimonio mi è costato dieci milioni”. E calcò la voce sui “milioni”. Più che a taccagneria o avidità, lo attribuirei a un sacro rispetto per il denaro, come forma di rassicurazione e di conferma concreta del suo successo. Bocca non ha mai dimenticato di essere il figlio della maestrina di Cuneo. E quando diceva quelle cifre, in fondo modeste, assumeva un’aria quasi birichina come l’avesse fatta grossa a sua madre.
Questo rapporto con il denaro spiega anche, insieme a una buona dose di masochismo, la fascinazione che Bocca provava per i ricchi. Lo lusingava essere invitato a cena dai Pirelli, dai Brion, dalla Crespi. Ma si annoiava a morte. Anche perché la mensa dei ricchi, con la scusa della dieta, è assai parca mentre a lui, nel cui Dna albergavano antiche fami contadine, piaceva mangiare e bere. Il culmine del masochismo lo raggiungeva quando accettava l’invito che Giulia Maria Crespi faceva ad alcuni importanti personaggi nella sua tenuta della Zelata sul Ticino. La sadica zarina pretendeva dagli uomini quasi tutti in età una regata agonistica sul fiume. Lui ne tornava distrutto e furioso. “Perché ci vai Giorgio?”. “Ma, sai, la Crespi…”. “Ma tu sei molto più importante di qualsiasi Pirelli o Brion o Crespi”. Bocca non ha mai avuto piena consapevolezza del ruolo che ha avuto per più di mezzo secolo nella vita intellettuale e culturale italiana. Psicologicamente era rimasto un provinciale come ha scritto lui stesso in uno dei suoi libri più belli, l’altro è la coraggiosa biografia di Togliatti dove smaschera le nefandezze de “il Migliore”, cosa per cui, lui socialista, fu sempre odiato dai comunisti.
Una volta chiesi a Bocca che cosa pensasse di Montanelli. “Montanelli ed io siamo stati spesso accomunati ma penso che non abbiamo nulla a che fare l’uno con l’altro, gli invidio la chiarezza della scrittura, l’eleganza di un giro di frase, la battuta, ma non credo fosse un uomo profondo”.
E’ questa profondità che distingue Bocca. Una profondità che gli ha permesso di fare inchieste memorabili. Ne cito solo una. Nei primi anni Sessanta andò a Vigevano e si rese conto che l’industria delle calzature, quando in genere noi si aveva solo due paia di scarpe, uno per la settimana e uno per la domenica, andava fortissimo. Insomma scoprì il “boom”, che noi stavamo vivendo senza essercene accorti.
Bocca era un uomo ruvido, spiccio, di poche parole, in questo un cuneese purosangue. Ma questa ruvidezza, come spesso avviene, mascherava una chiusa e scontrosa timidezza. Quella timidezza che gli ha impedito di essere un personaggio televisivo.
Ho sempre avuto con Giorgio un rapporto assolutamente alla pari. Lui non si poneva come fratello maggiore, i suoi insegnamenti, senza che intendesse fossero tali, me li dava col suo pragmatismo scevro di ogni sentimentalismo. Una volta mi disse: “sai, ho capito che dopo una certa età se vuoi l’affetto devi pagartelo”. E intendeva proprio l’affetto, non il sesso, di cui mi aveva detto poco tempo prima “a un certo punto la fatica è più grande del piacere e lasci perdere”. A me che stavo allora con una donna affascinante e innamorata (“l’amorona” come la chiamava lui affettuosamente) questa posizione sembrava troppo cinica. Quando ebbi l’età che lui aveva allora capii che aveva ragione.
Quando facevamo i “Dialoghi” Bocca si teneva coperto sui suoi giornali, La Repubblica e L’Espresso. Ma una volta sbottò contro Zanetti, il direttore dell’Espresso. Io registrai diligentemente e pubblicai. Una mattina alle sei squilla il telefono. Vado a rispondere tutto insonnolito. “Che cazzo hai scritto?”. “Ma quello che mi hai detto tu Giorgio, non mentre eravamo a pranzo o a cena, ma quando stavamo registrando i Dialoghi. E poi è la verità”. “Se tu, alla tua età, non hai ancora capito che non si può sempre dire la verità, sei un cretino”. Questa frase detta da uno che passava (ed era) uno dei più coraggiosi giornalisti italiani, mi colpì. Ma anche questo in fondo era un insegnamento. Se l’avessi seguito mi sarei evitato tanti odi e emarginazioni.
Negli ultimi anni della sua vita Bocca ebbe un’improvvisa decadenza fisica. Credo che non gli abbia giovato il trasloco dalla storica abitazione di via Bagutta a via De Grassi, un quartiere residenziale, per lui i negozi erano diventati inavvicinabili.
Credo di essere stato testimone di questo cambiamento. Un giorno quando stava ancora in via Bagutta andai a trovarlo con una bottiglia di rosso che ci scolammo di nascosto dalla Giacomoni (“sai, ho un po’ di diabete”). Mi mise le mani sulle spalle e disse “sei solido” ma anche la sua presa era solida. Andando ad abitare in via De Grassi Bocca era diventato un omarino che chiunque avrebbe potuto spazzare via con un soffio.
L’ultima volta che ho visto Bocca è stato nel giugno del 2011. Lui era vigile, attento, ma preferì che parlassimo Silvia ed io. In quel pomeriggio luminoso, troppo luminoso, d’inizio d’estate, tutti e tre ci rendevamo conto, anche per quel sole spavaldo fatto per altre età, di essere dei sopravvissuti. Bocca si è alzato per congedarsi. Gli ho chiesto: “Giorgio, hai più di novant’anni, che cosa pensi della tua vita?”. “Penso che, tutto considerato, mi è andata bene”.
18 Ottobre 2024, Il Fatto Quotidiano
L’anniversario della morte di Ernesto Che Guevara, ucciso in Bolivia il 9 Ottobre 1967, è passato inosservato e del resto dello stesso Che, oggi, si ha solo una conoscenza molto vaga.
La prima volta che seppi di Guevara fu nel ’57. A quell’epoca Guevara non era ancora un mito della sinistra tanto che il mio “incontro” con il Che avvenne sulle pagine di Gente, il settimanale diretto da Edilio Rusconi che di tutto poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari. Si trattava di un servizio fotografico. Mi ricordo in particolare un’immagine di Guevara a torso nudo sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell’uomo. Nelle didascalie si raccontava di questo giovane medico argentino che, con altri ribelli, era sbarcato nella Cuba di Batista a combattere per la libertà di un Paese non suo. Il settimanale di Rusconi gli dimostrava simpatia. Lo interpretava infatti come un eroe romantico, un “cavaliere dell’ideale” in fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora così integrato, “globale”, come oggi. E quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra.
Il giorno che si seppe della morte di Guevara Tommaso Giglio, il mitico direttore dell’Europeo, mandò Franco Pierini, il nostro miglior inviato, a La Higuera col compito di intervistare l’uomo che aveva ucciso il Che. Impresa che pareva impossibile. Dopo nove ore di volo per Bogotà e poi lo spostamento a La Higuera Pierini si trovò di fronte un’impenetrabile cortina di guardie del corpo che proteggevano l’assassino. Aveva pochissimo tempo. Due giorni. Era lunedì e il giornale doveva essere pronto per il giorno d’uscita, mercoledì, altrimenti avrebbe perso lo scoop. Pierini telefonò allora a Giglio dicendo che la cosa era impossibile. Giglio rispose: “farai bene a trovarlo perché ho già fatto la copertina che dice: ‘Abbiamo intervistato l’uomo che ha ucciso Che Guevara’” e sotto l’adrenalina che il terribile Giglio ti metteva riuscì nell’impresa. Questo dice, non solo e non tanto del modo di fare giornalismo di quei tempi, ma soprattutto dell’importanza che aveva Guevara allora.
I sessantottini fecero di Guevara un loro mito. Del tutto arbitrariamente. Se proprio si vuole si può ritenerlo un’espressione del movimento hippie per certe azioni un po’ goliardiche che aveva avuto nella prima giovinezza: medico, dopo aver vivisezionato un corpo all’obitorio, ne portò, come se nulla fosse, l’intera gamba su un autobus.
Espressione dell’atmosfera sessantottesca che si respirava negli anni Sessanta? Non diciamo cazzate. E’ sotto le mura della Statale che ho sentito scandire il rabbrividente slogan: “viva Stalin, viva Berija, viva la GPU” ed era la prima, e spero l’ultima, volta che si inneggiava a una polizia politica e al suo capo. E non ce lo vedo proprio il Che inneggiare non dico a una polizia politica e più generalmente al Potere che ha sempre disprezzato tanto da abbandonarlo quando, divenuto Ministro dell’Industria con Castro, se ne andò ritenendo che il castrismo avesse preso una deriva autoritaria. C’è una bella e affettuosa lettera a Fidel dove, non rinnegando nulla del passato, pensa di poter portare gli ideali della Rivoluzione cubana in un altro Paese, la Bolivia. Un’altra causa non sua e persa in partenza, che gli costerà la vita.
Sulla dittatura di Castro c’è però da dire qualche altra cosa. Ci si dimentica che prima di lui a Cuba comandava Batista che aveva fatto di quell’isola un casinò per i ricchi americani. Del resto Cuba, inserita come da regola nell’”asse del Male” se è diventata comunista non ha perso però i suoi connotati socialisti: la sanità e l’istruzione sono gratuite. Poi le infrastrutture sono allo sfascio come in tutti i regimi comunisti ma questo senso di solidarietà sociale i cubani lo hanno conservato, tanto che durante il Covid mandarono in Italia cinquanta medici per darci una mano (naturalmente per i media italiani, da sempre sudditi degli yankee, erano spie come spie erano i medici militari russi che furono inviati da Putin nel nostro Paese).
Nei primi tempi della Revolución, ministro, si dava da fare anche partecipando al lavoro sui campi.
Il Che era un uomo dolcissimo. Sia durante l’apprendistato rivoluzionario, cioè l’avvicinamento all’Avana, sia dopo, quando ebbe il potere, trovava il tempo di scrivere ai familiari, in particolare alla madre e alla nonna. Il padre di Guevara, Rafael Guevara Lynch, che apparteneva alla medio alta borghesia argentina si meravigliava che “questo mio figliolo così affettuoso sia potuto diventare un rivoluzionario”. Affettuoso sì, ma intransigente. Quando i familiari del Che andarono all’Avana per incontrare il figlio furono trattati con affetto ma messi nella condizione di tutti gli altri.
I comunisti italiani, a loro modo, furono più coerenti nei confronti di Guevara. Mi ricordo di sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola che gli rimproverava, forse non a torto dal suo punto di vista, una certa vaghezza ideologica, di essere un byroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della Rivoluzione. Inoltre non sta nel Dna positivista dei comunisti che uno che ha preso il Potere lo abbandoni. Lo consideravano un segno di debolezza. Ma il Che non era un uomo ideologico, era un uomo d’azione.
Guevara soffriva da sempre di asma, per rimediare in qualche modo, quando era ancora in Argentina si mise giocare a Rugby. Ma una volta, sulla Sierra, fu colpito da un tremendo attacco e dovette stendersi a terra con la sola speranza che i nemici non arrivassero. Si salvò, anche grazie all’aiuto di un compagno.
Tutti gli uomini di potere, anche quelli non spregevoli, hanno un’arma decisiva per offendere e difendersi: il cinismo. Il Che ne mancava completamente, era un Don Chisciotte trasportato dalla Spagna al Sud America.
Nel frattempo i fasulli sostenitori di Guevara, a sinistra come a destra, sono diventati manager e imprenditori che esercitano il loro potere con un cinismo che farebbe invidia a quei “padroni delle ferriere” che fingevano di contestare.
Fosse di sinistra o di destra, o tutte due le cose, o nessuna, Guevara rimane un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal realismo e dalla forza del denaro sempre più prepotenti (“In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre, dove regna il capitale, oggi più spietatamente” Guccini, Don Chisciotte, 2000).
Il Che quindi è dimenticato. Ma per noi, che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza e lo rimaniamo, Ernesto Guevara de la Serna è un mito che non rinneghiamo.
“Hasta la vista, hasta siempre, comandante Che Guevara”
15 Ottobre 2024, Il Fatto Quotidiano