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“In questo Paese tutto si può fare, ma niente si può dire” (Alberto Sordi).

Si era cominciato due anni fa mettendo alla gogna J. K. Rowling, l’autrice di Harry Potter, per aver osato dire che esiste la donna. Si è andati avanti in una sorta di  crescendo.  Di Kathleen Stock Professoressa di Filosofia, lesbica ( ma si potrà ancora dire “lesbica”?) è stato chiesto il licenziamento perché aveva sostenuto che ai trans che si identificano come donne  non debba essere consentito l’accesso agli spazi femminili. Contro di lei sono state organizzate marce da parte di studenti e anche di docenti perché avesse la buona educazione di sloggiare. Un centinaio di dipendenti della Netflix hanno inscenato una manifestazione contro il comico Dave Chapelle che nel suo programma, The Closer, faceva dell’ironia sull’”identità di genere”.  Rosie DiManno, giornalista del Toronto Star, ci informa che il termine “donna” sarebbe a “rischio di diventare una parolaccia” e potrebbe alla fine essere “sradicato dal vocabolario medico e cancellato dalla conversazione”. E infatti Aclu, Associazione pro diritti civili americana, per motivi di inclusività ha cambiato le parole della giudice Ruth Bader Ginsburg sostituendo “donna” con “persona”, la British Medical Association  ha raccomandato al personale di utilizzare “persone incinte” invece di “donne incinte”.

È tipico delle minoranze un tempo discriminate, una volta uscite dalle catacombe diventare più intolleranti di coloro che non le tolleravano. È fuori discussione che ognuno ha il diritto di agire la propria sessualità come meglio gli aggrada o gli detta l’istinto. Ma una volta sdoganati, col Fuori, gli omosessuali , o perlomeno parecchi di loro, sono diventati una lobby molto aggressiva contro chi ha la colpa di non essere omosessuale e hanno cominciato a dire stronzate come “l’orgoglio omosessuale”  che è una sciocchezza che fa il paio con “l’orgoglio eterosessuale”. Non c’è nessun “orgoglio” né in un caso né nell’altro. Ognuno è ciò che è. Punto. Se si va avanti a vivisezionare i vari “generi” come fan gli Lgbtq  ognuno di questi gruppi demonizzerà l’altro come è accaduto a Kathleen Stock che, pur lesbica, è stata accusata di “transfobia”.

Ora, tenuto ben saldo il principio di cui abbiamo detto più sopra, e cioè che ognuno ha diritto di agire la propria sessualità come gli pare e piace, sarà pur lecito dire che sono le donne a fare i figli e che i figli non nascono dal culo (anche se a veder certi leader politici viene qualche dubbio).

C’è in giro una gran voglia di mettere la museruola a tutto, se è vero quello che afferma Rosie Di Manno assistiamo al paradosso che nell’era del femminismo imperante e più petulante e fastidioso (Me Too docet) proprio la donna, almeno linguisticamente, viene scartata. E questo potrebbe dar luogo a conversazioni surreali “con chi sei uscito ieri sera?”. “Con una persona”. “Ma era di sesso maschile o femminile?”. “Tu mi vuoi far passare ‘l’anima dei guai’ come disse il maramaldo De Falco al Comandante Schettino. “Non lo sai che adesso i sessi non esistono più ma ci sono i ‘generi’?”.

Già perché adesso è in discussione la Legge Zan, che prima o poi verrà approvata, che introduce il reato di “transfobia”. Noi avevamo ereditato dal Codice fascista di Alfredo Rocco una serie di reati liberticidi, cioè di reati d’opinione (oltraggio al Capo dello Stato, oltraggio alla bandiera, oltraggio alle Forze Armate, eccetera) che erano comprensibili all’interno di una dittatura non di una democrazia. Invece di espungere questi reati d’opinione ne abbiamo aggiunti altri con la famigerata Legge Mancino del 1993 che sanziona “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. La Legge Zan non è che un’ulteriore specificazione di questo articolo. Ora l’odio, come la gelosia, l’invidia, l’ira è un sentimento e come tale non è comprimibile. Io ho il diritto di odiare chi mi pare e piace. È la prima volta nella Storia che si cerca di mettere la mordacchia anche ai sentimenti. Le peggiori dittature punivano le azioni e le idee ma non i sentimenti che sono un fatto totalmente intimo. È chiaro però che se io torco anche solo un capello alla persona o al gruppo di persone che odio, devo finire in gattabuia.

Più in generale tutti questi divieti, tutti questi verboten, esprimono la volontà di una ‘reductio ad unum’ dell’intero esistente. Un’omologazione generale. Noi, sulla spinta del puritanesimo americano, stiamo cercando di introdurre anche nel nostro mondo quello che vogliamo imporre ai “mondi altri”. Si è sentito ripetere più volte nell’ultimo periodo, dopo la presa di Kabul, che è opportuno “trattare con i Talebani”. Buonissima idea. Ma non si vede che cosa mai i Talebani dovrebbero trattare con noi. Non hanno combattuto vent’anni per vedersi imporre una Costituzione occidentale e i costumi occidentali. Hanno vinto la guerra e si organizzeranno secondo le loro tradizioni e i loro costumi. La cosiddetta “comunità internazionale”, che poi altro non è che un’espressione del pensiero yankee, gli vuole proibire un seggio all’Onu, perché non rispetterebbero i diritti civili e in particolare quelli delle donne. E allora perché mai all’Onu siedono l’Arabia Saudita che è molto più oppressiva con le donne dei Talebani? O il regime del tagliagole egiziano Al-Sisi? O la Turchia di Erdogan che non fa che mettere in galera o espellere presunti oppositori del regime?

Ma torniamo a noi. Il ‘politicamente corretto’ dilaga per ogni dove, in particolare nel linguaggio, per nascondere, con la consueta ipocrisia, ciò che di scorretto, anzi di violento, c’è non nelle parole ma nei fatti. È proibito chiamare “negro” un negro. Ho viaggiato parecchio in Africa nera e non ho mai sentito un negro offendersi per essere chiamato negro. Siamo noi che, a furia di ipocrisie, gli abbiamo inculcato questo complesso di inferiorità. Ma i “negri “ diventati “neri” continuano ad essere nei fatti discriminati in Africa e altrove come, nonostante tutte le proclamazioni, gli afro negli Stati Uniti.

Insomma per riprendere il Sordi dell’inizio in questo Paese tutto si può fare (anche corrompere, anche evadere il fisco per milioni di Euro, anche truffare un’orfana minorenne e restare candidati al Quirinale) ma nulla si può dire, in qualsiasi ambito della vita sociale e politica, dove oggi, tra le altre cose, c’è imposta la libertà di dichiararci tutti “convintamente antifascisti”. Se fai il saluto romano, che esprime un’opinione, una ideologia, sei spacciato.

Io mi convincerò di vivere in un paese veramente democratico e liberale solo il giorno in cui potrò dire “heil Hitler” senza essere messo immediatamente al gabbio.

 

Fatto Quotidiano, 3 novembre 2021

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Sono di madre russa e più invecchio più mi sento russo e sempre meno italiano. Sono, oserei dire, un Karamazov. Ho tutte le diverse e contraddittorie anime dei tre protagonisti del capolavoro di Dostoevskij: l’istintualità e la violenza di Dimitri, nel cui sottofondo, oltre all’ingenuità, c’è il masochismo che è una delle caratteristiche fondanti dell’intero popolo russo, la disperata razionalità di Ivan (“Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”), la spiritualità di Alioscia portata all’estremo, perché tutto è estremo nelle passioni del popolo russo che si autocolpevolizza e si autoassolve in continuazione. Dimitri, Ivan, Alioscia non sono che tre aspetti dell’anima di Dostoevskij e dei contrapposti sentimenti che la compongono.

Il popolo russo è mistico. E nemmeno il comunismo era riuscito a cambiarlo. Bastava solo grattare un po’ la superfice e subito saltava fuori il russo di Dostoevskij. Quando ero in Unione Sovietica nell’autunno del 1985, quella del primo Gorbaciov, a Mosca erano aperte solo tre chiese ortodosse. Se vi entravi eri preso dall’emozione, l’emozione della loro emozione. La religione ortodossa è presa sul serio da quelle parti, come del resto, poniamo, in Romania, e ha poco a che fare con lo stanco rito cattolico della messa domenicale, mentre al pomeriggio le chiese sono deserte o quasi, frequentate solo da tre o quattro vecchie strapenate terrorizzate dalla morte. La stessa emozione che avevo provato nelle chiese di Mosca, la ritrovai molti anni dopo a Teheran alla funzione del Venerdì. Gli islamici, il lettore lo sa, si mettono proni, il capo appoggiato al terreno e il culo all’aria, in una posizione oggettivamente ridicola ad un occhio occidentale. Ma anche lì, io che non sono credente, mi emozionai della loro emozione.

In me ha sempre giocato un ruolo fondamentale la contrapposizione fra l’istintualità di Dimitri e la razionalità di Ivan, purtroppo ha quasi sempre vinto la seconda tranne che in due o tre occasioni in cui, in preda all’ira, avrei potuto tranquillamente uccidere un uomo. Pm fermati: non ho ancora ucciso nessuno, ma nulla esclude che potrei farlo in futuro, avevo una pistola con venti colpi in canna che ora però son diventati 19 perché uno l’ho già usato (“Ma sono un gentiluomo e a nessuno dirò il perché”, Sergio Endrigo, Via Broletto 34) gli altri potrebbero servirmi più in là.

Quello che non è riuscito al comunismo è riuscito, a quanto pare, al capitalismo almeno a giudicare dai turisti russi di oggi che sono griffati dalla testa ai piedi in modo sgangherato, una scarpa e una ciabatta. La volgarità non è mai appartenuta a questo popolo, in ogni russo, per quanto agli stracci, cova un principe Stavrogin. Non ha alcun concetto dell’investimento,  il denaro vale sempre meno di una buona occasione per spenderlo o, meglio ancora, per buttarlo via. Non è un caso che lo stesso Dostoevskij dilapidasse in vari Casinò d’Europa, in particolare in quello di Baden Baden,  il denaro che racimolava faticosamente scrivendo un articolo al mese. I fratelli Karamazov sono un romanzo d’appendice, per quanto a noi oggi possa sembrare incredibile nascono così.

Insomma il russo, almeno finché è rimasto tale, è un passionale, un estremista delle passioni. Che cosa ho io a che fare con quelle “anime morte”, per restare in tema, che formano in gran parte il popolo italiano di oggi? Che cosa ho a che fare con quella madonnina infilzata di Mario Draghi, un banchiere nelle cui vene più che il sangue sembra scorrere il denaro, e che fra poco, Berlusconi permettendo, sarà il Capo dello Stato, cioè il simbolo della Nazione? Ma qui sta il punto. Noi occidentali siamo posseduti dal denaro, da questa concretissima astrazione che informa tutta la nostra vita. Il Dio Quattrino è l’unico idolo, il solo valore unanimamente riconosciuto. Ma a sua volta il denaro non è che la sovrastruttura di un sentimento più profondo che rende possibile e trionfante il capitalismo: l’invidia. Ludwig von Mises, che è uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici del capitalismo, lo ammette in modo esplicito ne La mentalità anticapitalistica: l’operaio invidia il capofficina, il capofficina invidia il dirigente, il dirigente invidia l’amministratore delegato, l’amministratore delegato invidia il proprietario che guadagna un milione di dollari e costui quello che ne guadagna tre. È un processo che non ha mai fine e che ci riguarda tutti. Salito un gradino si deve farne un altro e poi un altro ancora e così via. È il demone della società dinamica in contrapposizione a quella statica. E quella occidentale è la società più dinamica che sia mai apparsa nel corso della Storia. Ma a parte che l’invidia non è un sentimento propriamente nobile e che fa soffrire chi ne è preso, in questo modo l’uomo non può mai raggiungere un momento di tranquillità, di riposo, di equilibrio. È sempre spinto ad andare avanti verso un fine di fatto irraggiungibile, come al cinodromo i cani levrieri, fra gli animali più stupidi del Creato, inseguono la lepre meccanica, coperta di stoffa, che per definizione non possono raggiungere perché è posta davanti al loro muso proprio per farli correre. E così siam noi. Oggi.

Che si sarebbe andati a finire in tal modo lo aveva capito Dostoevskij già nel, 1879 anno in cui pubblicò I Karamazov,  quando fa dire allo stàrez Zòsima: “Concependo la libertà come una moltiplicazione e una rapida soddisfazione dei bisogni, stravolgono la propria natura, giacché ingenerano in loro stessi una moltitudine d’insensati e stupidi desideri, d’insulsissime abitudini e fantasie. Non vivono se non per l’invidia che si portano l’un l’altro”.

Il Fatto Quotidiano, 27 Ottobre 2021

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E’ difficile capire perché la politica e i media che la rappresentano, o piuttosto ne sono agli ordini, si siano così incarogniti. Non siamo ad un passaggio storico decisivo in cui ci sia da scegliere se stare di qua o di la, col cosiddetto ‘mondo libero’  o con quello comunista ( anche se i “Grandi della Terra” avevano già deciso tutto a Yalta, ma noi non potevamo saperlo). In Europa il comunismo è morto e sepolto da tempo insieme alle ideologie che suscitavano forti passioni. Destra e sinistra sono poco più che dei nomi, ombre del passato e si fa fatica a coglierne le differenze, se non in qualche dettaglio. Siamo tutti atlantisti e per un “forte legame transatlantico” e poco ci importa, a quanto pare, che si sia occupati dagli americani che hanno sul nostro territorio sessanta basi militari, alcune nucleari.  Tutto ciò non ha impedito a Giorgia Meloni, strumentalizzando alcuni moti di piazza e le polemiche che ne sono seguite, di affermare che in Italia è in atto una “strategia della tensione”. Meloni è tra i tanti che pensano che il mondo cominci con loro. Non era ancora nata o era infante quando l’Italia è stata teatro per alcuni anni di gravissimi fatti di sangue di matrice politica: Piazza Fontana, strage di Piazza della Loggia a Brescia, bomba alla stazione di Bologna, aereo civile abbattuto sopra i cieli di Ustica. Se fosse strategia non è possibile dire, anche se molto probabile, perché il nostro Paese era allora territorio di confine tra i due Imperi. Comunque la “strategia della tensione” è un’altra cosa. Paragonare quei fatti con i moti neofascisti o no vax, roba di piccolo calibro, tanto che non c’è scappato nemmeno il morto, è un “parlar da stupid” per dirla con Jannacci, come da stupidi, o peggio, è strumentalizzarli nell’uno o nell’altro senso.

Sono andato a rileggermi l’Unità del dopoguerra. Nonostante si fosse all’indomani di un sanguinoso conflitto civile, l’accanimento contro i fascisti era meno violento di quello che c’è oggi e che ci costringe a dichiararci tutti integerrimi antifascisti pena la garrota pubblica. Ho ritrovato un carteggio tra Armando Cossutta allora giovane capofila dell’ ‘ala dura’ del Pci e mio padre, Benso Fini, che dirigeva il Corriere Lombardo, quotidiano liberale. Siamo nel 1953 alla vigilia delle elezioni politiche. Cossutta si duole che il Lombardo non abbia dato al Pci lo stesso spazio dato agli altri partiti. Fini risponde, giornale alla mano, che si sbaglia. Quel che colpisce in questo carteggio è il reciproco garbo. Quei due uomini, che se si fosse arrivati al momento del dunque si sarebbero scannati, si rivolgono l’un l’altro con grande civiltà. Questo è un momento privato ma vale anche, in larga misura, nella arengo pubblico. La polemica con i comunisti raramente andava oltre il bonario duetto “Don Camillo e Peppone” o il “Trinariciuti” affibbiato sempre da Guareschi ai comunisti. Insomma siamo poco oltre i ‘bauscia’ e i ‘casciavit’ fra tifosi interisti e milanisti. Dall’altro campo rispondeva, sull’Unità Fortebraccio coi suoi corsivi d’una ironia micidiale quanto sottile. La “Tribuna politica” condotta da Jader Jacobelli non era una rissa come nei talk di oggi. La stampa, a parte eventi eccezionali come lo “scandalo Montesi”, non andava a ficcare il naso nella vita privata degli uomini di potere. Il gossip politico, tanto in voga oggi per screditare l’uno o l’altro, non esisteva ( un titolo come “Patata bollente” allora non era nemmeno pensabile avrebbe screditato solo l’autore).  A loro volta  gli uomini politici avevano il buon senso e anche il buon gusto di essere riservati. Chi ha mai saputo qualcosa della moglie di Andreotti o dei suoi figli? Mogli e amanti, se le avevano,  restavano sullo sfondo, come le mogli della nomenklatura sovietica che comparivano solo ai funerali dei mariti in lise pelliccette di astrakan.

I giovani italiani sono inerti, gli adulti asintomatici, se esprimono un dissenso lo fanno nel più pacifico dei modi: disertando le urne. Ai ballottaggi non è andato a votare il 51% degli aventi diritto, un dato che dovrebbe far riflettere, come abbiamo già scritto, gli esponenti dei partiti invece di lacerarsi e logorarsi in sordide lotte intestine, dimenticando di fatto, aldilà delle belle parole, le esigenze dei cittadini.

Insomma siamo in una calma piatta, una bonaccia, che non giustifica in alcun modo le isterie della classe politica e della stampa che la asseconda.

Noi ci facciamo portare al macello perché questo modello di sviluppo finirà per portarci al macello, e questo è l’ autentico hard core dell’intera questione. Docili come pecore da tosare e ubbidienti come asini, senza emettere nemmeno un belato o un raglio.

Può darsi che nella popolazione covi, sottotraccia, una sorda rabbia e una voglia di ribellione e anche di violenza. Ma per ora ci limitiamo a scaricarle nel virtuale come ci dicono le infinite serie basate sulla criminality che hanno un grande seguito. Siamo solo degli spettatori della nostra esistenza.

Il Fatto Quotidiano, 21 Ottobre 2021

"Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente" ( Io non mi sento italiano, Giorgio Gaber )